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Category Archives: Storia dell’Arredamento
UN PROGETTO DELLA COLOMBO STILE CON IL MUSEO DI STATO
Un’azienda italiana da un lato un’istituzione dall’altro.Colombo Stile,un’azienda anomala,stilisticamente eclettica,professionalmente presente nei luoghi più prestigiosi – dalla ristrutturazione del Kremlino alla costruzione delle ville private,delle ambasciate e dei più graqndi alberghi del mondo – che ha nella qualità estrema delle sue tecniche di produzione il suo plus vincente.
Per doverosa cronologia,un breve racconto per illustrare premesse,ragioni e precedenti della nascita di questo progetto.Nel 2001 l’Azienda Colombo Stile promosse un grande evento a Mosca,frutto di un complesso progetto che coinvolse,oltre all’azienda,il Museo delle Arti Applicate e dell’Artigianato,l’Associazione Moscovita Club Lady Leader che promuove iniziative culturali per la diffusione internazionale della cultura russa che ebbe il supporto del Museo Storico di Stato.
Furono scelti,con accurata selezione,trenta importanti pezzi d’arredo del’600,’700 e ‘800 inediti,mai mostrati precedentemente al pubblico,appartenuti ai nobili di Russia e di proprietà dei due Musei.
Dieci di questi sono stati in seguito restaurati grazie all’intervento economico dell’Azienda.
Il concept della mostra,è stato quello di proporre in un libero confronto dialettico arredi del passato e del presente,accumunati dalla preziosità dei materiali e delle lavorazioni artigianali.
I 32 pezzi che compongono questa collezione,di diverse tipologie sono nati per usi speciali,per ambienti speciali,per una committenza d’eccezione.
Pezzi unici di alto artigianato artistico,di eccellente fattura,furono costruiti con la massima qualità e attenzione alla tecnica,alle finiture,ai piccoli dettagli decorativi o elementi funzionali.
Quali sono le ragioni che spingono oggi una committenza privata ed una pubblica a rimettere in gioco gli elementi?
Questa classicità senza tempop è un territorio franco,una zona al di sopra delle parti,che nessun attacco critico è in grado di smontare perchè molto ben radicata e sedimentata nell’immaginario collettivo e nella memoria delle persone colte ma,sorprendentemente,anche del pubblico comune.
Se poi il mobile storico ha caratteristiche di funzione e d’uso compatibili con le esigenze di arredo e di comportamento della contemporaneità,il gap tra passato e presente non ha più ragione di esistere e agli occhi di un potenziale pubblico di utilizzatori dei mobili rieditati il dibattito critico sulla coerenza e la validità dell’operazione si rivela infruttuoso.Sono mobili belli,che appagano lo sguarsdo,che trasmettono complessivamente un’immagine ricca,sfarzosa. Si capisce al volo che sono stati pensati per vasti saloni,per accrescere il pregio di sale suntuose e padroni di casa eccellenti.Ma possiamo anche immaginarli più banalmente in uso,come pezzi singoli,in belle case moderne,ad appagare lo sguardo di padroni di casa forse meno colti o meno nobili,ma ciascuno almeno per se importante come uno zar.
La produzione: Direttorio
Siamo nell’ultimo decennio del Settecento. La bufera politica della rivoluzione frencese accentua il gusto per una maggiore sobrietà delle forme già avvertibile nello stile Luigi XVI. lnfatti la Rivoluzione, che si propone di abaettere le monarchie assolute, vuole anche eliminarne lo sfarzo reppresentato della ricca mobilia dello stile Luigi XVI. L’industria del mobile di Perigi, che era giunta al suo massirno livello, subisce un contraccolpo improvviso per lo scioglimento delle corporazioni artigiane. Il cambiemento porta la semplificazione delle forme. ll mobilio ha forme più rigide geometricamente , meno reffinate rispetto allo stile precedente. La linea curva è scompersa completemente. E’ presente in alcuni tavoli rotondi con supporti a pilastrino o a elementi quadrangolari e negli schienali delle seggiole e delle poltrone (schienali ell’etrusca) e si conserva anche nelle gambe posteriori dei sedili a forma di sciabola. ll linguaggio stilistico neoclassico continua ad imperare, me gli ideali della nuova società sono concretizzati attraverso la realizzazione di mobili Luigi XVI a cui vengono tolte le decorazioni originali per sostituirvi i simboli delle Rivoluzione e, in un secondo tempo, motivi classici. Si ritorna all’antico classicismo testimoniato dalle nuove decorazioni: le vittorie alete con copricapo e forme di lire, le corone di alloro, le sfigi greche, fauni, grifoni, anfore, zampe di leone. Prende piede anche la moda dell’ispirazione all’arte etrusca ed egiziana. Lo stile Direttorio è dunque di un classicismo piu accademico rispetto al periodo pre-rivoluzionario. Si impone un gusto semplice, fondato sulla rusticità dei legni. l mobili pregiati, costruiti con il mogano diminuiscono. Le impiallacciature sono eseguite ora con legni di albero da frutto e i vari masselli di legno vengono dipinti con i colori di moda: grigio chiaro, celeste, giallo, blu. Tra i mobili tipici dello stile troviamo il cassettone, la Psichè e i sedili, il letto da giorno “meridienne”, i lavamani e i candelabri a tripode. ll cassettone è generalmente costruito con materiali poveri, ed austeri, sempre più destinato alla funzione di contenitore. Al suo posto acquistano importanza gli scrittoi a ribalta e le credenze. Per l’ltalia non si può parlare di uno stile Direttorio originale e diffuso, ma soprattutto copiato. ll Veneto rimane ancora legato a elementi tipici dell‘area veneziana, quali dorature e laccature.
La produzione:Luigi XV
L’epoca di Luigi XV,re di Francia dal 1723 al 1774,è spesso definita epoca del Rococò.Non si può capire lo stile Luigi XV senza risalire al periodo precedente della Reggenza (1715-1723) che influì in maniera decisiva sulla vita della società e sulla creazione di nuovi indirizzi e nuove forme per quanto riguarda l’arredamento.E’ già durante la Reggenza infatti,che il mobile diventa funzionale al nuovo modo di pensare dell’alta società divenuta più aperta,meno formalista,più amante delle comodità.E’ una svolta in cui sono evidenti sia la diversa concezione della casa,che presenta ambienti più piccoli e raccolti,sia il diverso valore dato ai mobili che devono rispondere alle esigenze di una vita più comoda e meno formale.Rispetto al periodo precedente (il barocco di Luigi XV),il gusto per le decorazioni possenti si va attenuando a favore di una maggiore libertà delle forme.La fonte d’ispirazione di questo stile,caratterizzato dall’uso della linea curva,sia in orizzontale che in verticale e dall’assimetria decorativa,non è più il mondo classico ma la natura.E’ l’epoca dello stile rocaille,così chiamato per indicare un tipo di decorazione di grotte e padiglioni basato sul motivo della conchiglia.Anche il mobile subisce una trasformazione profonda,assumendo una maggiore libertà formale.La leggerezza e la morbidezza delleforme e un aspetto capriccioso e fantasioso sono le caratteristiche essenziali del mobile stile Luigi XV,dotato anche di grande confort e intimità:curve dolci e intarsi in legno rari con decorazioni in bronzi dorati e pannelli di lacca orientale o rivestimenti in sete e broccati.La decorazione basata su elementi architettonici viene abolita e sostituita con un repertorio di temi molto irregolari e asimmetrici,fantasie di frutta e di fiori,la sinuosa linea ad esse chiamata la “linea della bellezza” oltre a motivi esotici del medio ed Estremo Oriente.Il cassettone (Commode) si evolve per assumere la struttura attuale;i sedili e i letti sono costruiti con legni in colore naturali,ma talvolta sono dipinti e riccamente intaglilati.Il desiderio di intimità è soddisfatto dalla crreazione di una varietà infinita di “pezzi”.Vengono così create la chiffonière (tavolo da lavoro),la toilette (pettiniera),il comodino e diversi tipi di sedili.Numerose sono le versioni di bergères a seconda degli usi:la poltrona cabriolet e en gondole,la poltrona da scittoio,da pettiniera,per pregare,la seggiola da balia.Grande la varietà di tavolini consolles e piccoli mobili dalle forme slanciate con gambe snelle e sinuose.Caratteristici sono i molteplici congegni,nascosti entro sedili e tavolini,e destinati a sorprendere gli ospiti
la masseria pugliese
Nella regione Puglia il termine masseria indica una tipica azienda cerealicola o cerealicolo-pastorale che si sviluppa(terreni compresi)sempre su sperficie notevole frequentemente superiore a 100 e a volte anche a 200 ha. In modo particolare però il termine indica tutto il complesso dei fabbricati di cui l’azienda stessa è provvista.Un tempo si distinguevano,specie nel Tavoliere delle Puglie,le aziende pastorali “Masserie di pecore” da quelle cerealicole e le prime erano le più diffuse in conseguenza del notevole sviluppo dell’allevamento transumante.Poi la diminuzione dell’allevamento pastorale ha fatto si che man mano prevalessero le masserie di campo dove ciò prevale la coltura dei cereali.Variazioni nel tempo che hanno portato anche a notevoli differenze di costruzione tra le masserie della stessa regione.La masseria tipica del Tavoliere comprende:un complesso dedicato alla casa padronale quasi sempre a due piani,le abitazioni dei lavoranti fissi,a volte poste ai lati della casa padronale nonchè uno o più depositi per le derrate alimentari.Un secondo complesso che comprende:dormitori per i lavoranti avventizi,la cucina,le stalle e rimesse per gli attrezzi.Infine il complesso per gli ovini o altri animali che comprende anche il “Casone”per la lavorazione del latte.Vi sono inoltre l’aia con pozzi e abbeveratoi,il forno e,quando nelle vicinanze non vi sono corsi d’acqua,delle fosse per fare il bagno alle pecore.Man mano che ci si avvicina alle zone precollinari fino al Subappennino la masseria cambia però il suo aspetto:la distanza tra i vari fabbricati tende a ridursi,i corpi di fabbrica a raggrupparsi e a sovrapporsi l’uno all’altro fino a apparire quasi riuniti in un’unica costruzione che tende a svilupparsi verso l’alto.Oggigiorno la masseria non è più rispondente all’attuale realtà agricola in quanto trattori,mietitrici e trebbiatrici e tutte le altre macchine studiate per facilitare e razionalizzare il lavoro dei campi,sempre più complete e rapide,rendono superfluo l’impiego dei lavoratori stagionali e anche di parte di quelli fissi nonchè diminuiscono il numero se non eliminano del tutto gli animali da lavoro,per cui stalle,dormitori e in parte abitazioni restano parzialmente inutilizzati.Quanto alla pastorizia ha anch’essa subito un notevole calo per molte e complesse ragioni per cui viene a cadere la giustificazione di questi grandi complessi che,non bisogna dimenticare avevano anche una delle loro ragioni d’essere nel fatto che anticamente queste campagne soggette a scorribande di predoni e quindi tutt’altro che sicure,richiedevano anche per una sorta di difesa,”l’arroccamento” la riunione degli edifici.Accade così che molti di questi edifici vengono in parte o del tutto abbandonati.In alcuni casi vengono riadattate a moderne abitazioni,lo spazio certo non manca.
Tappa di vivacità nell’evoluzione degli stili
Il modello originale è esposto al Museo di Arti Decorative del Louvre di Parigi.Si tratta di una poltroncina stile Reggenza,che riassume caratteristiche peculiari a stili passati e preannuncia mode che hanno imperversato in un immediato futuro.Quale stile di transizione,il periodo della Reggenza viene deliniato come un lento capovolgersi di tendenze e un’anticamera per nuovi canoni stilistici stabilitisi poi in modo più definitivo dello stile Luigi XVI.Sul mesto crepuscolo del Re Sole già si individuano mutamenti di gusto che sfoceranno non tanto in un nuovo stile,quanto in una modificazione di mentalità e di stato d’animo che influenzerà anche il campo arredativo.Allo Stile Reggenza viene attribuito il periodo del 1700 al 1730,dilatando abbondantemente nel tempo l’effettiva reggenza di Filippo d’Orleans durata soltanto otto anni,dal 1715 al 1723.A cavallo tra la maestosa ampollosità dello stile Luigi XVI e il libero sfogo di fantasia dello stile Luigi XV,la Reggenza si pone quale equilibrato e moderato passaggio verso canoni di grazia ed eleganza,unite ad una notevole spinta verso la ricerca di una maggior comodità.Non è più la corte di questo periodo a dettar legge in fatto di decorazione d’interni:gli artisti e gli artigiani lavorano anche su ordinazione di privati che rifuggono dell’imponenza dello stile Luigi XIV e si avviano verso l’esuberanza dello stile Luigi XV.E nella novità delle realizzazioni si coglie il bisogno di distrazione e di piacere della nobiltà dell’epoca in questo periodo d’oro dell’ “ancien règime” che inventò il culto della dolcezza di vivere.Proprio per esigenze di comodità e di intimità,le dimensioni delle stanze si riducono,e di conseguenza i mobili diventano più piccoli,più maneggevoli,più numerosi:Ciò vale anche per sedie e poltroncine:il modello che presentiamo,tipicamente parigino,veniva generalmente costruito in faggio,a differenza di quelli prodotti per la provincia dove trovava maggior favore il noce naturale.Questa è in faggio laccato bianco,dorato in oro zecchino e intagliato a mano.il modello viene denominato “à la reìne” caratterizzato dallo schienale piano incorniciato da una fascia sagomata a profilo di balestra con finissime decorazioni scultoree.I montanti dello schienale sono di solito rettilinei,ma qui tendono a incurvarsi leggermente in quanto il modello originale pare sia stato eseguito tra il 1730 e il 1750,sul finire del periodo Reggenza quando le forme si incanalano verso canoni di maggior sinuosità.Le gambe sono piuttosto basse e arcuate;le estremità,di forma avvolgente,poggiano su un piccolo cilindro.Schienale e sedile sono imbottiti e,abbasandosi lo schienale,le due parti vanno quasi a congiungersi.I piedi dei braccioli,anch’essi ricurvi,non sono più alineati alle gambe della poltrona,ma si aprono sull’ampiezza del sedile per dare maggior agio alla ricchezza delle vesti femminili.La decorazione scultorea,che compare nella cornice dello schienale,nella fasera del sedile,nei braccioli e nelle gambe,si evolve dall’aspetto rigido seicentesco per ammorbidirsi in stilizzazioni che sottolineano la dolcezza delle forme;qui notiamo alcuni dei tipici motivi ornamentali dello stile Reggenza:la conchiglia forata,la palmetta,la foglia increspata a baccelli e la classica foglia d’acanto.Per quanto riguarda la tappezzeria,essendo originariamente montata su telaio,questa veniva sostituita in corrispondenza del cambio di stagione.La stoffa del modello dell’immagine è la riproduzione esatta del tessuto Luigi XIV che si trova attualmente nella camera reale del Palazzo di Versailles.In pura seta 100%,la versione che tappezza questa poltroncina viene prodotta a Lione in due varianti di colore,con fondo blu e fondo rosso,entrambe con il motivo floreale dorato.
Intuizioni per dire Realismo
La nascita di questo palazzo ferrarese può collocarsi nel Quattrocento, mentre la prima ristrutturazione risale ad un secolo fa. Quando fu deciso di trasformare il granaio ad abitazione probabilmente pochi riuscivano a prefigurare un risultato così convincente, nonostante la spazialità e l’altezza dell’ambiente che danno la misura dell’importanza dell’intero edificio. Dal 1976 la casa ha assunto l’aspetto attuale con una ristrutturazione attenta e fastidiosa sono state svelate e non prevaricate le indicazioni e possibilità tipologiche, considerando l’impianto originario materiale di lavoro da cui partire per articolarlo e riconnetterlo secondo un’idea precisa, mai per annullarlo o confusamente esibirlo.
Così la sezione trapezoidale con il tetto inclinato può essere tuttora goduta, anche se è stata sapientemente rielaborata con il soppalco. Travi a vista e pavimento in cotto, lucernari e grandi aperture verticali sui terrazzi; uso di porte in legno e di intonaco dipinto di bianco, scelta dei mobili continuamente correttiva a impedire che prevalesse ora l’aspetto rustico, ora quello antico o un’immagine staticamente moderna; questi ed altri tratti caratterizzano una casa senza dubbio fortunata, dove comunque l’equilibrio ricercato è frutto di paziente sapienza, come agisce colui che sa leggere altre l’apparenza e cogliere le indicazioni che il reale già contiene in attesa di essere messe in luce. La doppia altezza e il doppio livello non si perdono in confini senza definizione, ma vengono precisati dalla maglia lignea.
Allo stesso modo i mobili antichi sono valorizzati da appropriati oggetti di ornamento mentre i pezzi di design sempre con i primi si confrontano. La cassapanca nunziale cinquecentesca “confina” con il divano in pelle nera, fra gli imbottiti di linea moderna e il pranzo del secolo XVI e XVII.; alla poltrona Wassily, con la cromatura e le linee paradossalmente classiche, è affidato il compito non arduo di alleggerimento e mediazione. Sono solo esempi che però si ripetono in tutti i locali, anche nella camera da letto dove il rattan viene inserito con soddisfazione e un’impronta ottocentesca. Le lampade sono per la maggior parte attuali ma anche in questo caso si può dire proprio che il linguaggio da un risultato omogeneo. L’apprezzamento o meno di una casa non può fondarsi su un discorso di verità oggettiva perchè dipende dalle tendenze di gusto personali, ma è pur vero che quando l’intervento progettuale parte dalla comprensione e dalla non contraddizione con l’esistente, il senso di adeguatezza, di adesione alla cultura collettiva che è in ognuno di noi, diventa condizione più che sufficente per inebriarsi delle ulteriori scelte.
Quelle d’arredo qui non potrebbero essere maggiormente felici. La dolce Ferrara, dove la casa è situata, è città meravigliosa: con il suo Castello, con il Palazzo dei Diamanti, con quei pieni e quei vuoti abilmente distribuiti sul territorio. La dolce Ferrara, dove le biciclette sembrano uscire da un film storico, dove le mura circoscrivono inestimabili tesori, viene detta anche città degli innamorati. Forse perchè è più facile tenersi per mano e guardarsi negli occhi, forse perchè uno dei suoi monumenti più belli è la Palazzina Marfisa, splendida costruzione dai rapporti perfetti, residenza di questa donna libera e volitiva, affascinante e appasionata, di cui si racconta facesse strage di amanti e uscisse di notte su splendidi cavalli seminando cuori infranti.
La dolce Ferrara ha acquistato, con la ristrutturazione di questa casa, una conferma di seduzione.
Rococò di Lusso
Siamo a pochi passi dall’Opera di Garnier, tra Palace de la Concorde e il Grand Louvre. Di fornte ai giardini delle Tuileries. Siamo all’hotel Meurice, a Parigi, nel cuore del 1° arrondissement e delle seducenti boutique tradizionali, nuove e trendy.
L’albergo nasce all’inizio del XIX secolo, da un’intuizione di Augustine Maurice che, sulla costa di Calais, dava il benvenuto ai viaggiatori britannici che da Dover si recavano a Parigi. L’intraprendente direttore del locale ufficio postale, decise di aprire una seconda locanda di sosta nella capitale francese, il Meurice. Solo nel 1835 l’albergo si sposta nell’attuale posizione consolidando l’immagine che ancora oggi mantiene salda, di casa-lontano-da-casa. Un albergo leggendario, perchè frequentato dalla nobiltà europea e non solo: magnati, uomini di potere e famose star del cinema e della musica. L’hotel (che oggi appartiene al Gruppo Dorchester, gestore di alberghi di lusso di proprietà della Brunei Investment Agency), è stato riaperto nel 2000 dopo un totale restauro che lo ha riportato al suo originario splendore di palazzo del XVIII secolo. Già nel 1906, sotto la guida di Arthur Millon, fu oggetto di un piano di riqualificazione e di ampiamento, che lo vestì dell’immagine che ancora oggi è la sua fortuna, in perfetto stile Rococò. Saloni dorati ed elaborati egualmente condivisi da una clientela aristocratica, così come da scrittori e letterati francesi. L’arredamento è in stile (il Meurice arricchisce e migliora la sua collezione acquistando da Sotheby’s e Christie’s) sia nelle zone di cortesia, sia nelle stanze (125, insonorizzate con aria condizionata) e nelle suite (36 di cui 11 junior, due presidenziali al primo piano e La Belle Etoile, reale, al settimo, che domina tutta Parigi).
A completare un servizio extra lusso, l’Espace BienEtre, la Spa situata in un’area di 300 mq al piano ammezzato, il Ristorante Le Meurice, vetrina della gastronomia parigina e il Giardino d’Inverno, nel cuore dell’hotel, per il tè del pomeriggio. All’aperitivo è dedicato invece l’atmosfera del Bar Fontainebleau, di più recente realizzazione.
A luglio l’hotel si è arricchito di un nuovo glamour tutto italiano. Carla Tolomeo, la ‘Signora delle Sedie‘ ha realizzao uno dei salotti dell’albergo: un classico Luigi XVI rivisitato. Sullo schienale di due sedie sbocciano delle rose: fiori morbidi di velluto rosso, sculture animate in tessuto, opere d’arte che invitano a sedersi. Perchè il Meurice è anche cultura.
Un comodo e articolato Medio Appartamento dove Vivere e Ricevere
Dall’ascensore si accede direttamente nell’alloggio che, da subito rivela l’attenzione e la cura di un’ambiente arredato con una precisa definizione degli spazi e con un equilibrato accostamento dei singoli elementi. Nel piccolo ingresso, caratterizzato dalla tonalità delle pareti color tortora, troviamo, verso l’entrata della zona conversazione, una piccola cassettiera in noce dell’800 arricchita da una tela soprastante della stessa epoca. Un unico ampio locale, diviso solo parzialmente da un muro, accoglie la zona pranzo e la zona conversazione con i toni caldi e accurati di tutto l’appartamento.
La sicurezza delle soluzioni è d’altra parte percepibile nell’accostamento dei sue salotti ‘800: uno è stato ricoperto di velluto operato mentre l’altro è in gobelin a fiori, completato da un medio tavolo da lavoro con lampada a torcera e sul quale una moderna scultura offre un indovinato stacco dallo stile degli imbottiti e dei tavolini bassi provenienti dall’antiquariato inglese.
Negli scorci dell’appartamento riprodotti dalle immagini, sono altri ancora gli elementi che colpiscono l’attenzione: il bellissimo cassettone del ‘700 con specchiera argentata d’epoca, il mobile rustico a due ante trattato a cera, i tappeti persiano di diverse dimensioni e le varie suppellettili d’argento e di peltro del ‘700 e dell’800. Il noce è decisamente dominante in tutto l’arredamento: dello stesso legno è, infatti, nella zona pranzo, il grande tavolo rotondo dell’800 con gamba centrale e ripiano impreziosito da intarsi chiari; pure in noce sono le sedie dell’alto schienale, ricoperte da un brillante velluto rosso.
Utilizzato come libreria nella parte superiore e come contenitore nelle basi, il mobile a muro compreta in maniera funzionale l’angolo soggiorno-pranzo.
Anche nello studio, a cui si accede attraverso una porta a soffietto, la comodità della sistemazione non impedisce la rigorosa compostezza dell’insieme, dove ogni elemento sembra aver trovato la sua colocazione più naturale. Dalla libreria al divano in noce, ricoperto con una leggera stoffa orientale; dai due tavoli del secolo scorso alla disposizione delle stampe di soldati alla curiosa collezione di elmi e berretti militari di varie epoche.
Il tappeto e la comoda poltrona accentuano il senso di raccogliemento di questo locale.
Con il fascino discreto del Legno
Una ristrutturazione dove convivono diversi elementi, scanditi dai due camini, che mette in risalto il legno dei pavimenti, nei mobili, nei soffitti, cioè nelle parti storicamente più coinvolte dal suo impiego. Acquista così anche maggiore determinazione l’uso della pelle per sedie e imbottiti, la digressione del marmo di rivestimento di un focolare, il singolo particolare ornamentale.
Forse nient’altro come un caminetto acceso riesce a creare quell’atmosfera magica in cui si può riscoprire il piacere delle serate in compagnia degli amici, delle conversazioni intorno al fuoco, delle allegre tavolate; nient’altro come il fuoco scoppiettante e delle braci ardenti sanno offrire quella calda ospitalità e quell’allegra accoglienza tipica degli ambienti rurali.
Nel salone di questa cascina ristrutturata di S. Daniele Po di camini ce ne sono due, collocati uno si spalle all’altro in modo da incorporarsi con la parete di divisione che ha funzione di spezzare la vastità dell’ambiente. Se i camini, che mettono in vista singolari travature, una in legno e l’altra ricchita da fregi di chiara ispirazione classica, fanno molto rustico, non si può però negare che quest’abitazione mantenga ugalmente doti di eleganza e di classe, alternando mobili antichi e moderni in un sapiente equilibrio di stili e di forme. Sul lucidissimo parquet si specchiano le pareti rigorosamente bianche che contribuiscono ad illuminare l’ambiente e su cui spiccano i mobili in legno scuro. Un muro basso di separazione introduce alla zona pranzo, composta da un tavolo frattino del ‘600 e da quattro sedie con schienale alto ricoperte in pelle evidenziata da borchie. Completano la sala da pranzo una panca tirolese dell’800, di struttura semplice e lineare, un armadio del ‘600 con ante intagliate e un divano rivestito in tessuto sfoderabile color champagne che si accosta al tono più delicato dei tendaggi.
Perpendicolare al muro divisorio troviamo un cassettone del ‘600, intarsiato con motivi geometrici e ingentilito da soprammobili in peltro. Questa sorta di passaggio creato dal muro divisorio e dal cassettone e studiato per scindere quasi completamente le funzioni conduce al salotto, dove hanno ampio spazio i divani componibili in pelle, anch’essi color champagne. Il design di questi, così come del divanetto della zona pranzo. Un armadio a muro con ante convesse completa il soggiorno insieme a tappeti e quadri d’autore che impreziosiscono l’abitazione. La travatura a vista del soffitto si armonizza efficacemente con le altre note rustiche dell’ambiente, riproponendo come materiale in legno. elemento di base dell’arredamento che gli architetti hanno ideato per questa cascina.
Per una Struttura ad Effetto
Blu e marrone, ma anche il giallo; archi e linee curve, ma anche la severità del rustico; ovvero una composizione inconsueta per una grande casa. L’involucro mira a colpire l’osservatore con la sua architettura dominata dalle linee curve che si susseguono a formare una scenografia decisamente inconsueta, ma commisurata allo spazio disponibile. Il piano terreno ha infatti dimensioni ragguardevoli e si articola in diverse zone comunicanti tra loro mediante aperture dalla forma ad arco, ma differenziate per ampiezza. Centro dell’ambientazione è il salotto blu, dove il tema “circolare” coinvolge anche le pareti e parte dei mobili. Accanto, alla rempa di scale incorniciata a sua volta da un’arco, ha andamento elicoidale e termina con un pianerottolo circolare. Ancora al piano inferiore un secondo e più raccolto salotto e, in collocazione simmetrica, la sala da panzo di tono rustico. Colori dominanti in questa parte della casa, il blu e il marron, scelti per il rivestimento degli imbottiti e ripresi da complementari e soprammobili. I pavimenti in ceramica di Salerno aggiungono,
con la loro decorazione tradizionale, note diverse, ma non discostanti, al colore dell’ambientazione. Con i mobili si impone poi la scura tonalità del legno invecchiato, presente sia in esemplari autentici che in elementi eseguiti oggi, ma con materiale originale. La zona notte al primo piano, di cui presentiamo una camera, è più audace nella scelta del colore: adotta infatti, e in dose abbondante, un brillantissimo giallo. Sui pavimenti le belle piastrelle in ceramica di Salerno.
La pavimentazione di tutta la zona giorno è realizzata con piastrelle in ceramica di Salerno nei decori e nei colori desunti dalla tradizione. Fra il soggiorno e la sala da pranzo una balaustra barocca proveniente da un’arredamento di chiesa. Al centro del pianerottolo a forma circolare un suntuoso tavolo barocco intagliato e dorato con busto ligneo. Alle pareti, antiche armi. La sala da pranzo si differenzia dal soggiorno per un’impronta più rustica, dovuta anche al caminetto affiancato da sedili in muratura. Tavolo e sedie impagliate sono realizzati in legno di noce. Alle pareti piatti in ceramica dei decori tradizionali. Mobili pregevoli come il comò intarsiato del’700 e il piccolo fratino con gambe a lira acquistano vivacità nell’abbinamento con tessuti e suppellettili in una brillante tonalità di giallo. Il tessuto utilizzato per il copriletto e per il rivestimento delle poltroncine è chintz. Alle pareti stampe del ‘700.
Meditati Abbinamenti
Verde e Giallo sono i colori guida di questo arredamento costruito con grande coerenza fin nei minimi particolari. Data una struttura ambientale abbastanza varia, ma non inconsueta, l’arredatore ha operato scelte precise: pareti tinteggiate di bianco sulle quali far risaltare le note cromatiche dei toni ricorrenti,
mobili in noce massiccio contrassegnati da uno stile particolare che si colloca tra il rustico e l’alta epoca, disposizione ordinata ma non scontata, complementari di gusto ma discreti che si uniformano al carattere dell’arredamento. Non mancano particolari inconsueti in grado di personalizzare il tutto. Ne sono un’esempio, nel soggiorno, la massiccia porta intagliata, completa di cardini e chiavistelli, che funge da parete divisoria, la libreria in muratura con antine di legno vecchio, l’ampia apertura ad arco che dà respiro alla piccola sala da pranzo, i capitelli in pietra che costengono il piano in cristallo del tavolino. In tutti gli ambienti le scelte cromatiche sono rispettate con una meticolosità che rasenta il perfezionismo, coinvolgendo non solo i tessuti di rivestimento, moquette e piastrelle, ma anche paralumi, soprammobili, vasellame, fino alla conferma più gaia e decorativa dei vetri legati in piombo alla porta che dà sull’ingresso e a una finestra della cucina.
La zona giorno si articola in tre spazi comunicanti ma ben definiti. Il più ampio è occupato dal salotto composto da divani a due posti e poltrone rivestiti in tessuto Canovas, simmetricamente disposti attorno al tavolino con piano in cristallo su capitelli in pietra. Nell’angolo sopra un divanetto, un sopra porta del ‘700. Sulla parete di fondo una massiccia porta intagliata del ‘600 costituisce l’insolito elemento divisorio tra il salotto e l’ingresso, dove l’unico mobile è un tavolino rustico tipo “ciabattino“.
La sala da pranzo occupa uno spazio piuttosto ridotto, ma si affaccia sul salotto con un ampia apertura ad arco. Il tavolo è un lungo, massiccio fratino accompagnato da sedie caratterizzate da una struttura decisamente più agile. La credenza in noce è un modello del ‘600. Nell’atmosfera calda di un caminetto e nella rustica solidità dei mobili l’immagine più vera della casa si colora di giallo. In questo colore le piastrelle del pavimento, i fiori dulle tende e sui cuscini in tessuto Warner e sulla vetrata “coordinata”, il servizio di piatti e di bicchieri. Nella foto a fianco, un’altra immagine
dell’ingresso ci mostra la stretta porta di accesso allo spogliatoio con una vetrata artistica di ispirazione orientale che riprende i colori del soggiorno nei toni caldi del verde.
Nel corridoio che dall’ingresso porta alla zona notte è colocata un’insolita console rustica. Sullo sfondo due tavole dipinte a soggetto religioso: l’accuratezza nei vani di servizio. La camera da letto accentua il contrasto tra lo sfondo chiaro dato dalle pareti, dalle tende e dalla morbida moquette e i mobili scuri, massicci i comodini e il cassettone, più aggrazziati e decorativi la testata del letto in ferro dipinto e la poltroncina Luigi XV. L’illuminazione è resa da lumi con base in ottone.
Aderire allo “Spirito Inglese”
Quello che presentiamo nell’immagine è il modello originale. Una poltroncina realizzata in mogano di origine inglese, proveniente dall’Inghilterra che ha avuto una speciale predilezione per il legno dal colore rosso scuro così confacente alle esigenze si solidità e resistenza che venivano richieste alla “English forniture”.
Non per niente, fra le definizioni classificatorie per i periodi stilistici del mobile, compare “the age of mogany” – l’epoca del mogano – fra la seconda metà e la fine del XVIII secolo. E’ da notare, fra l’altro, la peculiarità del sistema classificatorio, che, a differenza per esempio del mobile francese, si basa sul materiale impiegato o sul nome di esecutori importanti invece che sui monarchi, che in Inghilterra ebbero scarso rilievo come committenti.
Fu la scarsità del legno di noce, riscontrata nei primi due decenni del Settecento, a far guardare al mogano come valida alternativa per la costruzione di mobili di alta qualità, quando anche in Francia pose il veto alle esportazioni del noce. Il mogano non era certo patrimonio dei boschi locali, come lo era invece la quercia; ma con l’abolizione delle pesanti tasse che gravavano sull’importazioni di legname e grazie all’efficenza della flotta inglese, la quantità di mogano importato dalle colonie del Nord America e delle Inde Occidentali di decuplicò nel giro di dieci anni.
Il mogano giamaicano era il più comune, ma quello più apprezzato proveniva dalle isole spagnole di Hispaniola, Cuba e Portorico, da dove venivano contrabbandanti in Giamaica. La particolarissima tonalità e la robustezza vennero subito apprezzate e sfruttate al meglio; e molti dei più bei mobili inglesi non avrebbero potuto avere lo stesso successo d’esecuzione con un’altro tipo di legno che non fosse il mogano, forte, che non si crepa nè si incurva, con una superficie resistente a graffi e a macchie, e immune a tarli. E’ un legno così duro che le decorazioni scolpite, come ad esempio quelle sui piedi di poltrone, sedie e tavoli, non rischiano di subire danni nel normale lavoro domestico; e la sua solidità quasi metallica persura anche quando, nelle sedie, è intagliato in profondità per l’imbottitura degli schienali. In questa poltroncina l’intaglio, eseguito interamente a mano, riveste il ruolo di protagonista di primo piano, quale l’elemento di maggiore caratterizzazione soprattutto dello schienale. E gli ebanisti inglesi hanno sempre dimostrato la tendenza a privileggiare lo schienale come parte su cui sbizzarrire maggiormente la loro fantasia creativa: dalle “box chairs” del XVI secolo, con il sedile rozzamente cubico e lo schienale alto finemente intagliato, ai “back stools” del Settecento; dalle “oval-back“, “shield-back” e “wheel-back chairs” – le sedie con schienale ovale, a scudo e a ruota – di Adam e Hepplewhite fino alle più recenti sedie di Mackintosh dagli shienali allampanati. Il disegno dello schienale di questa poltroncina riprende il corpo centrale le sembianze delle sedie Chippendale, con l’aggiunta della sovrastruttura “a petali” che abbraccia le spalle di chi e seduto. Il sedile è circolare, le gambe ricurve, con zoccolatura nelle due anteriori, i braccioli sono sostenuti da un supporto sagomato.
Oltre alla bellezza del mogano massiccio lucidato a mano, la poltroncina di avvale del complemento del cuscino, imbottito in piuma d’oca e rivestito da tessuti esclusivi firmati.
Uno scrittoio concorso di stili
Olandese l’autore francese l’ispirazione,inglesi i monarchi commissionari:l’originale è conservato presso la Wilton House,nei dintorni di Salisbury,e fa parte della collezione del conte di Pembroke;un pezzo, quindi,che riunisce svariate influenze e diviene esemplificativo delle tendenze stilistiche e delle esigenze funzionali del periodo storico posto tra la fine del XVII e gli inizi del XVIII secolo.Il disegno dello scrittoio in questione viene attribuito a Gerreit Jensen,ebanista di origine olandese:estremamente avara di notizie la sua biografia,ma ciò che si sa per certo è che già nel 1680 operava in Inghilterra,e che in quell’anno gli fu commissionata dalla casa reale l’esecuzione di alcuni mobili destinati in dono all’imperatore del Marocco.E le commissioni tra l’ebanista olandese,il fascino imitativo rivolto alla Francia e la monarchia anglosassone già si ritrovano in questo primo incarico di Jensen:il re Carlo II,tornava dall’esilio in Olanda dopo il fallimento del governo puritano di Cromwell,trionfante e al tempo stesso debitore al paese ospite;la maggioranza dei seguaci di casa reale aveva invece trascorso gli anni di confino in Francia e,tornando in patria,cercò di ricostruire nella Londra da tempo asceticamente chiusa alle influenze d’oltremanica l’atmosfera edomistica della corte di Versailles.D’altro canto il re stesso era dichiaratamente francofilo,pronto ad accogliere nel suo regno qualsiasi moda e costume che provenisse dai domini di Lugi XIV.Jensen non si sottrasse al fascino dei mobili francesi e,in parte per soddisfare il gusto di corte,in parte per seguire il flusso della moda-e le due motivazioni non sono ovviamente disgiunte-diede vita a creazioni che rielaboravano lo stile francese conferendoli però quell’aspetto più solido e meno affettato che si confaceva maggiormente allo spirito anglosassone.Le commissioni a lui affidate dalla casa reale si moltiplicarono sotto il regno di Guglielmo d’Orange e Maria, che salirono al trono dopo la rivoluzione del 1688.Sebbene olandese e fiero oppositore delle ambizioni territoriali di Luigi XIV,Guglielmo d’Orange era francofilo per quanto riguardava l’acquisizione delle mode in campo arredativo e nell’abbigliamento.Fra l’altro,fu proprio questo il periodo di massimo splendore per la corte francese:Versaille,con l’apporto di Le Brun e di Boulle,era divenuto vero e proprio fulcro delle arti decorative,guardata con ammirazione ed emulata da tutta l’Europa.E la corte inglese questo spirito emulativo anche nelle classi sociali più elevate,che divenivano sempre più abbienti e più raffinate nel gusto.Inoltre,a diffondere la moda d’oltremanica contribuirono anche molti artigiani francesi protestanti rifugiatasi in Inghilterra dopo la revoca dell’editto di Nantes nel 1685.Gerreit Jensen viene identificato comunque come il più importante mobiliere di quel periodo in Inghilterra,e molti pezzi da lui eseguiti per Guglielmo e Maria sono ancora presenti nelle collezioni reali inglesi.Inoltre,secondo alcuni critici,Jensen viene ritenuto l’unico ebanista che sia riuscito a mettere al frutto mirabilmente e a diffondere in Gran Bretagna la difficile tecnica dell’intarsio in metallo ideata da Andrè-Charles Boulle.Da lui acqisì sia i canoni normali,sia e soprattutto quelli relativi all’ornamentazione,che era costituita da una combinazione di ottone e peltro su guscio di tartaruga;l’unica differenza nella rielaborazione di Jensen è l’assenza di caratteristici montanti dorati in metallo usati dall’ebanista francese
Casa e Paesaggio d’Autore
Settignano guarda firenze da Nord. E’ una piccola propagine della città, ulivi e cipressi, che esprime in tutta chiarezza un certo gusto abitativo e paesaggistico proprio della Toscana. Radicata in una tradizione di <<scalpellini>> che furono tra i protagonisti del Rinascimento (vi indicano subito Desiderio e Michelangelo), si è creato un alone romantico che piacque a innumerevoli e colebri artisti: esponente e catalizzatore insostituibili fu naturalmente D’Annunzio negli anni densi, esplodenti, rovinosi della Capponciìna e delle Duse.
(Respiro del silenzio è ansia senza respiro. Possa attraverso uil borgo di Settignano, incontro o sopravvanzo le torme dei tagliapietre, degli scalpellatori, che tornano dall’opra: se camminassi nella sabbia o nella melma, le impronte non sarebbero de’ miei sandali ma de’ miei pensieri, ma delle mie inquietudini). Qualche casolare di villa antica, tanto antica da arrivare a ùBoccaccio, appartiene ancora al vecchio borgo di cavapietre annunciato al campanile; intorno, molte ville ottocentesche si propongono come luoghi deputati di una solidità borghese legata alla tradizione paesistica macchiaiola e che non rifiuta la spiritualità secolare della terra. (E’ una di quelle giornate in cui il paese toscano nudo e risecco sembra assumere l’aspetto di quelle primitive incisioni in legno a contorno…. I cipressi che limitano il cammino sono già taciturni. Cammino alla ventura. L’oliveto m’è come in popolo afflitto e convulso. Lascio parlare l’anima agli olivi; ed essi la conprendono meglio ch’io non la comprenda…. Il vespro s’infolte illune….) La fondamentale assenza di una forma architettonica nuova non impedisce a queste ville, nate e cresciute tra Ottocento e Novecento, di decollare verso orizzonti Europei rivisitando i contenuti della tradizione con i simboli e le fantasie di revival dannunziano. (L’Anima della villa toscana maneggiata dall’abitatrice come si maneggia uno strumento…. Il lembo del pastrano s’impaglia in un fiore del cancello di ferro battuto….) La Villa Dumbra, qui fotografata, è un’esponente della tipologia abitativa settignanese; la sequesnza di stanze, tutte affiancate su un ottocentesco giardino che guarda Firenze tra peonie e limoni, si propone come un percorso negli stili storici che tanto piaceva all’ecclettismo ottocentesco: una fuga verso la severità del Medio Evo, la solidità dei mobili manieristici del Cinquecento, la grazia di un salottino settecentesco di un boudoir dell’Ottocento.
Così doveva essere un tempo l’atmosfera alla Capponcina, alla Porziuncola, i lunghi letterari di Settignano. (…. verso la stanza più profonda, verso la stanza della musica…; è presso al cembalo…; la stanza è rivestita d’un legno corale di sagrestia… Mi sembra che il piccolo virginale dipinto, sensibile come un amante abbandonato, sia corso da un fremito subitaneo… … una pagina crepita come se un dito di madonna lo volgesse. Certo è una pagina del quaderno di Giovanni Marone ferrarese, che sta sul leggio del coretto…) Nella Villa Dumbra sono accostati mobili originali ad altri “ispirati” alle varie epoche secondo una precisa organizzazione che vuole riconoscersi nei segni rassicuranti del passato, commisti alla seduzione alla seduzione di echi del presente che parlano di modelli d’ambiente, di art nouveau. Il tipo di risposta di queste e di altre abitazioni di Settignano si limita a recuperarre i connotati più epidermici dei nuovi orientamenti stilistici europei, in qualche vetrata colorata che chiude le logge classiche, nel jardin d’hiver, versione al chiuso del bersò che c’è giù in giardino, nella cura del particolare d’artigianato locale: la scala di ferro battuto, la maniglia, la decorazione di marmi e pietre dure. Abitata in tempi recenti dalla famiglia Chiarenza-Tommasi, attiva nel campo della musica e della letteratura, la villa ospita di frequente alcune grandi personalità dell’arte e della cultura di oggi.
In tal modo si rinnova una tradizione di famiglia che vide nella seconda metà dell’Ottocento i Tommasi, pittori e mecenati, tra le famiglie protagoniste del dibattito culturale, che tennero i collegamenti tra le nuove correnti musicali, letterarie e pittoriche. Legati, tra gli altri a Puccini e proprio a D’Annuzio, i Tommasi su queste colline ebbero case e terre che destinarono a ospitale centro di ritiro e di studi d’arte. Ma non erano i soli, perchè una delle funzioni riconosciute delle ville settignanesi fu di offrire asilo e suggestioni all’opera e al pensiero di tanti artisti. (Mi soffermo a raccogliere in me il sentimento della mia casa solitaria, dove soli vivevano ieri i libri eterni, dove gli spiriti delle vecchie case adunate si mescolavano alla sostanza delle pagine meditate. Ecco, qui io lavoro quindici ore, diciotto ore di seguito, ogni giorno. Tra le belle patatine ve n’è una molto rara, che non è prodotta se non dall’assiduo calore del cervello. Prima di me questi legni non eran tanto ricchi. Le colline sono avvolte in un velo ceruleo. Dalle loro cime sembrano generarsi le nuvole bianche, infinitamente molli… Le cose sembrano più lontane, come nei sogni. I salici sembrano di fiamma, cappellature irte. Su i sentieri le orme disseccate. Cominciano a suonare le campane. Allora il paesaggio sembra modulato dal suono. Le colline svengono, si fanno quasi immateriali. Le più lontane sembrano sul punto di fondersi nelle aere…)
Vivremo d’Arte
Con questo titolo uscì più di due anni or sono, su un’importante settimanale italiano, un lungo testo di John Kenneth Galbraith, famoso economista americano. In esso veniva affermato che le attività lavorative più vecchie ed a maggior intensità di mano d’opera dei paesi industrializzati sono vittime del benessere e delle modifiche avvenute nell’atteggiamento verso il lavoro, con le relative conseguenze sui comportamenti sia individuali che collettivi. Molto è stato scritto e detto sui pericoli ed i guai derivanti da questa radicale evoluzione del vivere moderno a cui stiamo andando incontro, grazie soprattutto allo sviluppo dell’elettronica. Questi cambiamenti non sono però privi di vantaggi. Le attività a più elevato contenuto tecnologico sono le più pulite e più piacevoli, richiedono maggior intelligenza e, avendo meno concorrenza, pagano stipendi e salari più elevati.
Ma i vecchi paesi industrializzati possono avere vantaggi ancora più grandi dall’incremento delle attività a base artistica. Sostiene Galbraith che sia presunzione degli scienziati e dei tecnici ritenere che l’ultima frontiera dello sviluppo industriale siano la tecnologia e le conquiste scientifiche. Secondo l’economista americano essi hanno assolutamente torto: l’ultima frontiera è l’artista. Quando le cose funzionano la gente vuole anche che abbiano un bell’aspetto, quindi ai più alti livelli di sviluppo industriale è il design che conta. Pur addebitando all’autore di queste affermazioni un che di enfasi, non vedo come si possa non essere d’accordo, in particolare da un punto di vista italiano. E’ grazie al buon livello di design che l’Italia dalla fine della seconda guerra mondiale in poi ha progredito costantemente smentendo tutte le previsioni di disastri economici. Nessuno ritiene che la scienza e la tecnologia italiane siano superiori a quelle degli altri paesi, né che il managment italiano sia particolarmente competente e che i sindacati italiani siano particolarmente docili. Ma tutti riconoscono che i manufatti italiani sono più belli di quelli di qualunque altro paese. L’Italia, paese industrialmente vecchio, ha il vantaggio di una tradizione artistica ancora più vecchia.
Naturalmente questo non significa immaginare un futuro di pittori e di poeti né ritenere che per creatività valga il concetto romantico di genio e sregolatezza, ma i cambiamenti negli atteggiamenti verso il lavoro industriale e le conseguenze ci indicano che il futuro economico dei paesi di più antica tradizione vada ricercato nelle attività con più alto talento intellettuale, scientifico o artistico, o a più alta intensità generale di capitale investito. Il caso italiano presenta aspetti curiosi e contraddittori: la struttura produttiva diffusa per piccole e medie aziende, l’impossibilità di realizzare forti investimenti in ricerche o progetti da parte delle imprese orientate verso il design, ha costretto i progettisti a trasformare una serie di vincoli in altrettante opportunità, operando in diversi settori produttivi, rendendo la propria esperienza interdisciplinare, consapevoli di numerosi processi produttivi, finanziari, commerciali. Su questo e altri temi riguardanti il mondo del progetto nella sua accezione più ampia ci s’incontrerà e ci si scontrerà in Ottobre al Congresso ICISID ’83 da cui, considerato il numero e l’autorevolezza dei partecipanti, ci si attende un ampio, non definitivo, ma effervescente contributo.
Rare Essenze e Gomme d’Angelo
Un luogo comune alquanto consolidato suole contrapporre l’artigianato all’industria moderna. Tuttavia, sebbene questa contrapposizione non sia priva di verità, esistono ancora alcuni settori industriali in cui questi due aspetti sembrano fondersi; tra di essi vi è il settore mobiliero. Qui talvolta accade di trovare industrie in cui il moderno è presente solo nella dimensione degli spazi e nel numero degli addetti mentre tutti gli altri aspetti, quale l’uso di determinati modelli o l’amore per la manualità, non si distaccano nulla dalla tradizione artigianale.
Ed è solo grazie a questa urine tra tradizione artigianale ed industria moderna, che alcuni procedimenti potranno essere tramandati nel tempo. Infatti, via via che li artigiani invecchiano e scompaiono, si và esaurendo la grande tradizione delle botteghe mobiliere, una tradizione né scritta né parlata, ma fatta di gesti appresi in lunghi anni di duro e paziente lavoro. La scelta della ditta Annibale Colombo è stata appunto quella di integrare in un’azienda moderna quelle esperienze artigianali che altrimenti sarebbero andate perse. Questa ditta, vantando oltre duecento anni di tradizione, ha deciso di dedicare la maggior parte del suo catalogo alla produzione di mobili antichi; qui l’aggettivo “antico” non è usato a sproposito dato che i mobili prodotti, non solo si rifanno agli originali nelle forme, ma subiscono le medesime fasi di lavorazione che sarebbero state effettuate da un’abile artigiano.
Qui antiche lavorazioni come l’intarsio e la lucidatura a mano vengono effettuate secondo l’antica tradizione.
L’intarsio viene ottenuto impilando vari supporti ed alternandoli con essenze di legno” (sottilissime sfoglie di legno dello spessore di 6 o 8/10 di millimetro). Il tutto viene poi passato al traforo che provvede a tagliare secondo un disegno prestabilito le essenze; queste vengono poi ombreggiate mediante l’immersione in sabbia rovente. Un altro aspetto tradizionale nella produzione dei mobili Colombo consiste nella lucidatura; qui, bandite le tinteggiature sintetiche e poliuretaniche, viene ancora utilizzata l’antica tintura all’acqua all’anilina che viene poi lucidata radiante una miscela di gomma d’angelo ed alcool.
Questa miscela viene posizionata sui mobili da lucidare e stesa con un procedimento che solo l’esperienza può permettere di effettuare senza errori. Il tampone infatti deve girare sempre nel medesimo senso e deve essere mosso il più uniformemente possibile in quanto che ogni sosta produrrebbe degli scompensi nella colorazione e nella lucidatura. Questa operazione deve essere ripetuta molte volte onde poter ottenere quella particolare tonalità della lucidatura antica. Ma al di là di questi aspetti tecnici, importantissimi di per sè, quello che più conta è l’amore per la tradizione, per il bello, ed il coraggio di aver rinunciato a certe tentazioni innovative che hanno portato troppo spesso a deturpare l’antico con dubbie manomissioni.
Il Simbolismo nell’arte del Tappeto
Il Simbolismo nell’arte dei tappeti è uno degli argomenti più affascinanti e discussi; quante volte, attratti dal gioco dei colori e delle forme, abbiamo tentato di raffisare cissà quali messaggi provenienti da una realtà poco conosciuta e, che per questo ancor più ci coinvolge e ci stimola; un mondo di cose e di idee alle quali, nonostante tutto, siamo estranei ma verso le quali ci sentiamo naturalmente attratti.
Il tappeto per noi è uno dei tanti soggetti ornamentali, per gli orientali è un modo di vita, da quando lo tessono a quando lo usano, esso è il punto fermo per il nomade, il suo letto, il suo divano, la sua stella, la sua culla; per lo stanziale è l’arredamento principale della casa, il legame con la tradizione delle sue genti, la continuità con il suo passato. I simboli che l’artigiano, con arte vecchia di secoli, riannoda pazientemente, hanno perso il loro significato iniziale per assumere quello di testimonianza ancora viva delle tradizioni, di un passato che si rinnova e si tramanda. Questi simboli hanno radici lontane, e non sono nati per caso ed hanno subito nel corso dei secoli tutte le influenze ed i cambiamente,che scambi culturali, religiosi e commerciali poterono favorire. La loro decodificazione quindi può essere, tenuto conto di questi cambiamenti, oggetto di studio, ma non deve divenire un’ossessione. A volte motivi e segni ai quali si vorrebbe forzatamente dare un’interpretazione, altro non sono che “sviste d’autore”; è bene ricordare che l’artigiano non vuole mandare messaggi, ma solo ed esclusivamente le sue tradizioni, egli quindi si ispira ad esse e alla natura.
Tutto ciò vale per gran parte delle produzioni, soprattutto per quelle nomadiche e villiche, le eccezioni si riferiscono a quei tappeti generalmente persiani che venivano prodotti dai laboratori di corte. Nonostante queste premesse, ben difficilmente si riesce a sganciarsi dal desiderio di decrittare motivi e segni e, più forte diviene questo desiderio quando ci si trova di fronte a tappeti provenienti dall’area caucasica. Questa produzione infatti. è affascinate. non solo per il gioco cromatico ma per l’estrema stilizzazione dei simboli che, pur essendo abbastanza comuni in altre produzioni, quì assumono per la rigidità del disegno, l’elementarietà dei tratti, la geometricità (quasi un “guastarsi” dell’idea originaria – tanto da far parlase di “decadenza” da parte di alcuni studiosi) un aspetto del tutto nuovo e a volte inquietante, ma così “originale” in ogni eccezione del termine, che, se da una parte riafferma in modo erquivocabile i tratti tipici e le tradizioni dei popoli di questa regione – che conservano invariate le loro radici rustiche e primitive ma essenzialmente vitali – dall’altra riaccende i desideri di comprensione e di interpretazione di queste forme. Il tappeto Caucasico è, come già si è detto, un tappeto dall’assoluto rigore geometrico, il suo disegno è un gioco continuo di triangoli, esagoni, quadrati; tutte le forme sono riprodotte nella loro essenzialità senza alcuna trasgressione o mezzi termini; nel suo complesso si possono trovare accostate a simboli elementali e tribali altri più complessi ma in ogni caso riprodotti senza alcuna concessione allo svolazzo, al ricciolo, alla divagazione.
Oltre alle figure geometriche sopraccennate, altri sistemi sono ricorrenti in questa produzione: la stella ad otto punte dei Medi, quella a 6 punte dei maomettani, il gancio (per molti derivazione della svastica, …simbolo quest’ultimo del polo, attorno ad esso si effettua la rotazione del mondo…, svastica non come simbolo di movimento fine a se stesso, ma di un movimento di rotazione che si compie attorno ad un centro o ad un asse immobile). Nella produzione delle zone meridionali, si possono ritrovare anche figure di persone o animali, sempre molto stilizzate. Tra le raffigurazioni animali le più ricorrenti sono quelle del pavone (immortalità) e del gallo (nemico dei demoni, ha il compito di svegliare i credenti ed invitarli alle preghiere). Stilema assai utilizzato è il Boteh, nella produzione caucasica ha contorno rigido vagamente esagonale, la sua forma è simile ad un fico (questa è una delle interpretazioni, altri hanno avvisato una pigna, un pera, una mandorla) per taluni è la deformazione fantastica del cipresso nel quale si sasrebbe mutato Zoroastro dopo la sua morte.
Il Pavone, il Gallo, il Boteh sono tutti elementi sacri dello Zoroastrismo. Soffermiamoci ora all’aspetto più tecnico della produzione dei tappeti, la loro struttura. Nella stragrande maggioranza dei casi, viene utilizzato un telaio verticale: i fili dell’ordito (catene) sono disposti verticalmente, mentre la trama si inserisce orizzontalmente. Più usato dalle tribù nomadi, in quanto facile da racchiudere e trasportare durante i trasferimenti, è il telaio orizzontale, con esso si possono eseguire solo tappeti di piccolo formato. Dopo aver steso tutte le catene, vengono eseguite delle serie di nodi assicurati da due o più fili di ordito contigui; terminata ogni fila di nodi, si inserisce la trama che viene poi premuta mediante un pettine. Il nodo viene fatto con una matassa di lana che dopo ogni annodamento viene tagliata; questa recisione è molto rudimentale e lascia i capi del nodo ineguali; via via che il lavoro procede viene data una prima livellatura a forbice; a fine lavoro un esperto artigiano livella il tappeto in modo omogeneo. All’inizio del lavoro, generalmente viene lasciata una cimossa (4 o 5 cm di tessuto non annodato), altre volte si lasciano catene libere per un certo tratto al termine della lavorazione del tappeto, con esse si formeranno le frange. I materiali più usati per l’ordito e trama sono il cotone, la lana, la seta; in alcuni casi l’ordito è di cotone e la trama in lana, per quanto riguarda il tappeto Caucasico sia trama che ordito sono in lana salvo alcune rare eccezzioni. I nodi sono sempre eseguiti con lana, raramente è stato usato il cotone e solo per dare più vivacità al bianco.
Promozioni Sì ma con idee Nuove
“I rivenditori tirano le somme sull’argomento già affrontato con i produttori d’elettrodomestici e cucine. Pur ammettendo l’effettivo guadagno di tali attività. Un po’ stanchi, ricercano altri prodotti che possano nuovamente stupire il cliente.”
Negli ultimi due numeri della nostra rivista abbiamo cercato di capire, attraverso diversi punti di vista, prima quello dei produttori del bianco, poi quello dei cucinieri, quali fossero le opinioni più diffuse sulle promozioni dedicate agli elettrodomestici, che negli anni sono diventate sempre più una prassi e quasi una legge.
Le opinioni sul “regalo”; solitamente la lavastoviglie, si dividono tra chi sostiene che sia il mezzo più efficace per vendere più cucine ed elettrodomestici, e chi invece crede sia ormai un compromesso un po’ obsoleto. Inoltre da un lato i produttori di elettrodomestici definiscono le promozioni un aiuto a vendere le cucine, dall’altro i produttori di cucine, ribattono che simili operazioni sono uno dei pochi strumenti ancora in grado di difendere il proprio fatturato legato al bianco, che attualmente rischia di essere intaccato dalla concorrenza aggressiva di distributori – che hanno armi come la velocità e le reti corte – e Grande distribuzione. Ma vediamo più concretamente qual è il valore strategico che hanno dato alle promozioni i produttori del bianco e quelli di cucine, per scoprire l’opinione in merito dei negozianti.
INCENTIVO O SVILIMENTO?
Da parte dei protagonisti del bianco sono emerse opinioni differenti: se da un lato vi sono produttori che considerano le promozioni indispensabili per realizzare volumi e creare, o meglio consolidare, i loro rapporti con il partner cucinieri; dall’altro c’è chi continua a sostenere la tesi dello svilimento dei prodotti cui questo tipo di azione conduce. Nato come un metodo per cercare di alzare il tasso di penetrazione della lavastoviglie sul mercato del nostro Paese, la promozione, che vede questo elettrodomestico praticamente regalato al consumatore finale, non avrebbe più ragione d’essere, visto che oramai, secondo alcuni, quasi tutte le famiglie ne possiedono una, pur magari ammettendo di non utilizzarla spesso. D’altro canto è pur vero che rimane un ottimo incentivo per vendere il tris di elettrodomestici di uno stesso marchio – e quindi far girare più prodotti e aumentare fatturati – e soprattutto per spingere la vendita di una cucina. E in ogni caso il rischio di svilire negli anni questo prodotto è compensato appunto da una forte operazione di vendita che oltre a garantire comunque un buon tasso di penetrazione, conferma la stretta partnership che si viene a creare tra entrambi gli attori,produttori di elettrodomestici e cucinieri. A conti fatti, secondo le aziende del bianco, per ciò che riguarda le promozioni, sono quindi maggiori i pro (stabiliscono i rapporti di partnership, aumentano il tasso di penetrazione dei prodotti, garantiscono buoni volumi di vendita e soprattutto dinamicità al mercato).
che i contro (sviliscono i prodotti e non garantiscono margini corretti ai rivenditori).
OMAGGI TROPPO FACILI
Questo scenario di luci e ombre permane anche nelle opinioni dei cucinieri. Chi continua ad appoggiare questo tipo di attività promozionali lo fa soprattutto per avere un prezzo concorrenziale rispetto alla Grande distribuzione e poi per “difendere” il fatturato del 30% percento relativo agli elettrodomestici, che altrimenti andrebbe perduto. Secondo questi cucinieri dunque non servono tanto a vendere le cucine bensì gli elettrodomestici. Ci sono però molti produttori di cucine che invece ritengono le promozioni un’attività utile sul breve periodo ma non certo a lungo termine, a causa della forte dispersione di risorse e di energie che potrebbero altrimenti essere investite in altri campi molto più utili, come ad esempio la qualità del servizio o la forza del brand. In sostanza questo tipo di attività funziona sì, ma essendo negli anni divenuta troppo facile e diffusa, rischia oggi di essere controproducente.
UN CONSUMATORE PROTAGONISTA
Cosa pensano invece i rivenditori delle promozioni? Secondo questi operatori per orientarsi tra le dinamiche di un argomento
tanto delicato, bisogna indubbiamente partire dal consumatore, e da come quest ultimo vive le promozioni: si deve diventare un pò psicologi quando ci si trova di fronte ad un cliente e cercare di capire quali sono le sue esigenze, le sue abitudini e solo in un secondo momento avanzare domande sulle disponibilità economiche. Tutti sono concordi nell’affermare che, se un tempo il consumatore, più disposto a spendere, adocchiava un prodotto interessante in vetrina ed entrava nel negozio per acquistarlo, ora non è più così: il cliente va “attirato” presso il punto vendita, va seguito passo dopo passo e consigliato nelle scelte, va coccolato, ma soprattutto va stupito. E’ proprio su questo punto che nessun negoziante ha intenzione di soprassedere. Lo stupore che si legge sul viso di un cliente attratto da un prodotto sembra essere il punto di partenza e di arrivo di tutto il difficoltoso processo della vendita di una cucina.
CIRCOLO VIZIOSO
A questo punto però la lavastoviglie in regalo non basta più, per due motivi: è ormai un omaggio istituzionalizzato e non impressiona più i consumatori, e lo si può trovare praticamente ovunque. Sono infatti molti i negozianti che lamentano questi due problemi: da molti anni la lavastoviglie viene in effetti regalata da tutti, o quasi, i produttori di cucine, spesso indipendentemente dalla fascia di mercato di appartenenza, e proprio per questo motivo non si invoglia più il consumatore all’acquisto della cucina senza che vi sia una promozione in atto; se fino a qualche anno fa queste attività venivano segnalate solo in alcuni momenti dell’anno e solo pochi marchi di elettrodomestici aderivano all’iniziativa ora invece si può parlare di una consuetudine generalizzata. E come se questo non bastasse, il consumatore non deve neanche fare più la mossa di cercare il punto vendita più vicino che partecipa alla promozione, perchè non vi è negoziante che non abbia almeno un marchio di cucine che propone l’offerta. Anzi la maggior parte dei punti vendita dispone di più brand in promozione. Qualcuno dichiara di voler smettere con questo circolo vizioso che non permette di accumulare i margini adeguati, ma confessa d’altro canto di non potere, per forza di cose, fare da solo una scelta di questo genere perchè verrebbe immediatamente “tagliato fuori” dal giro e rischierebbe di compromettere troppe vendite di cucine. La proposta da parte di chi è stanco di queste attività, e le considera ormai inutili e poco significative, è quella di coalizzarsi, e al motto di “l’unione fa la forza”, chiedere ai produttori di elettrodomestici e di cucine di concentrare maggiormente le promozioni solo in un paio di occasioni l’anno.
UN VALORE POCO APPREZZATO
I rivenditori intervistati ricordano anche la poca stima che viene prestata al valore dell’elettrodomestico in regalo è fonte di numerose delusioni: quasi sempre sono prodotti che superano i 700-800 euro e non sono quindi elettrodomestici fascia entry level come quelli che vengono proposti alla Grande distribuzione del mobile. Nonostante però venga continuamente sottolineato il valore di questi prodotti da parte dei negozianti, i consumatori sono un pò restii a recepirlo, proprio per il fatto che viene loro omaggiato. I negozianti spiegano infatti come nella mente dell’utente si insinui un meccanismo per il quale “ciò che viene regalato è di poco valore, visto che nessuno regala niente per niente”. Invece non è affatto così. Si tratta di prodotti importanti, dotati di tecnologia avanzata, come ad esempio i programmi per il lavaggio dei cristalli o quello Bio o ancora Differenziato, e altre caratteristiche di grande valore.
UN ARMA IN PIU’
Naturalmente anche chi afferma di essere stanco di queste attività, per i motivi che abbiamo sopra citati, ammette comunque che le promozioni sono state, in passato in alcun caso lo sono tuttora, decisive per la vendita della cucina – come avevano già dichiarato i produttori di elettrodomestici – e per incrementare il fatturato dei punti vendita: proporre l’intero pacchetto di elettrodomestici, infatti, da una parte invoglia il consumatore all’acquisto del modello desiderato e, nei casi più fortunati, il risparmio sulla lavastoviglie, che viene regalata, si trasforma nella scelta di un piano di cottura più performante, di un forno dotato anche di ricette preimpostate o di un piano di lavoro dai materiali più pregiati. I rivenditori intervistati confermano quindi che, soprattutto per ciò che riguarda il primo impianto e per le giovani coppie o i single che decidono di andare a vivere da soli, è un buon risparmio che viene quasi sempre recepito positivamente.
I PIU’ INTRAPRENDENTI
In ogni caso, mentre i produttori di cucine e di elettrodomestici riflettono su quale prodotto potrebbe, in un futuro molto prossimo sostituire la lavastoviglie, alcuni rivenditori stanno già attuando politiche di promozioni diverse da quelle standard di cui abbiamo parlato fin ora. E qualcuno già ammette che funzionano. Si tratta infatti di tornare a stupire il cliente e proporre quindi prodotti di valore, oggetti del desiderio, che conferiscono un’idea di lusso come ad esempio cantinette, macchine per il caffé o piccoli elettrodomestici, come i robot da cucina di alta gamma, che magari un consumatore non acquisterebbe. Più nel dettaglio si è cercato di fidelizzare i clienti attraverso omaggi “inattesi” qualcuno ha provato a sottoporre all’attenzione del consumatore macchine che preparano la pasta e pane, oppure gelaterie, frullatori o ancora macchina caffé, tritarifiuti e per i più audaci, le proposte, come già accennato, hanno visto protagonisti veri e propri elettrodomestici come forni a microonde, macchine da caffé o cantine per la conservazione del vino. Questi intrepidi rivenditori sono molto soddisfatti del riscontro avuto dagli innovativi omaggi proposti in fase di vendita e confermano che hanno intenzione di continuare su tale strada, perchè convinti che sia l’unico modo per sorprendere e impressionare il consumatore. I rivenditori, anche i più piccoli. hanno dunque già trovato delle valide alternative per sviluppare il business.
IL TEATRO DELLE MEMORIE
Luci di sbieco e soffi d’aria dalle aperture,insieme alla luce.
Polvere non troppo e legni, legni foggiati, intagliati, decorati, intarsiati.
Legni disposti a terra, sulle loro quattro gambe, con braccioli e schienali, Sedili.
Platea da sempre necessariamente deserta,platea spettacolo a se stessa.
Legni appesi a decine, a centinaia, sotto il soffitto, a invisibili canapi.
Cartoni,cartoni sagomati,liste e liste appese lungo le pareti.
Archivio all’apparenza inesauribile (non c’è interesse a contare) di sedili custoditi in ogni luogo,fabbricati in ogni tempo,tutti minuziosamente rifatti,identici ai loro prototipi.
Identici tra molti sedili tra quanti,peregrinando per musei e palazzi e regge europee,hanno destato il nostro desiderio di stanchi visitatori,subito rimosso da un risvegliato rispetto per la storia,su cui residui materiali è poco dignitoso,per noi,suoi figli,poggiare le membra.
Biblioteca di modi di sedere ormai passati eppure ancora desiderati,dopo ore trascorse su un sedile riscaldato e regolabile di un automobile venuta da nord.
Biblioteca di modi di sedere che chi,in decenni,è pssato dalla storia allo sgabello del bar,ama ripercorrere.
In questa biblioteca di legni,un piccolo libro,dizionario di carta stampata dalle sue poche parole.
COPIA “Trascrizione di una pittura o stampa”,ma anche”disegno,pittura,scultura ricavata da un esemplare che lo riproduce più o meno esattamente”.
Così recitano altri dizionari e,tra i sinonimi,aggiungono:”contraffazione”.Ma contraffazione è in rapporto col commercio che di un oggetto si fa,vantandolo come originale:con l’oggetto di questo commercio rapporto non c’è,la copia non è contraffatta.”Copia” e sempre relazionato ad un lavoro manuale:una trascrizione,un disegno,un oggetto fabbricato o scolpito.
Con l’eccezione di un termine improprio,”fotocopia”,copia meccanica per la quale sarebbe opportuno usare il termine “riproduzione”.Copia,nell’uso,diviene un pò spregiativo:sinonimo di pigrizia mentale,di poca originalità.
Ciò non avviene con la scrittura,bene copiabile per eccellenza perchè,come ha notato Foucault,da secoli ormai il suo contenuto è considerato indifferente alla forma,al gesto,al connotato del segno che lo rappresenta.
Copiare scritture è considerato un atto normale,ascriviamo meriti enormi agli amanuensi delle antiche abbazie.
Copiare è considerato un atto normale perchè,indifferente il concetto alla forma della scrittura,questa copia richiede la normale abilità di uno scolaro elementare.
Quando,dunque,”copia”contiene una colorazione negativa,è perchè cerchiamo l’autentico fuori dal nostro pensiero,dentro l’oggetto.
E qui scopriamo come dieci anni di concettualismo siano passati invano per il nostro senso comune.
DIMA Non sitrova sui dizionari comuni.Termine tecnico,artigiano,escluso da una certa lingua crociana.
Dima:tramite materiale tra un progetto e un oggetto o tra due oggetti,l’uno esistentre,l’altro da riprodurre identico a questo.
La dima si usa quando la misura non c’è,non serve o fallisce.
Quando il materiale od il gesto che gli ha dato forma sfuggono alla scansione grossolana del metro.
Il rapporto della dima all’oggetto,dunque,non è razionale ma materiale e sensibile,la dima,radicalmente non appartiene all’industria ma all’artigianato.
Nel nostro caso la dima è il risultato e lo strumento di un rilievo,di un lavoro minuzioso e paziente sopra l’oggetto ed è la garante della copia fedele.
IMITAZIONE:Non è il caso nostro.Imitazikone implica una specie di grottesco sforzo creativo,inarrivabile restando il modello.
L’imitatore tenta di ricorrere coi suoi poveri e grandi mezzi,con deformazioni volute o distacchi non controllati,il progetto,non di restituire,identico,l’oggetto
L’imitazione è un inutile ricreare là dove meglio sarebbe “copiare”spesso è la scorciatoia per una modesta abilità.
Oppure appartiene alla satira.
Posato il libro,luci di sbieco,ancora,e soffi d’aria con loro.
Ognuno di questi oggetti,,di questi sedili,ha soddisfatto,in un uomo,il desiderio opposto,e simmetrico,a quello dell’ “autentico” ed “unico”.
Desideri di cui la nostra cultura,malgrado proprio per essi spesso torni a ripetersi,ha estremo pudore.
Di essi non hanno, invece,pudore quanti non hanno una “Storia” davanti.
Pensando questi sedili in legno come le copie di quelli autentici dai quali derivano,attraversa lo sguardo l’immagine di una maniacale scena teatrale.
Non più dunque l’immagine della platea come palcoscenico e surreale macchina teatrale,minuziosamente tesa a restituirci la scena come mondo reale dei suoi personaggi.
La cui splendida essenza ci dona luci di sbieco,e soffi d’aria,e silenzio:malgrado secoli di chiacchera mormorante sopra queste e quelle sedie.
Silenzio:perchè questo non è il mondo,siamo seduti a teatro.
Il restauratore di Dipinti
Prima di parlare del ruolo che il restauratore occupa nel nostro contesto sociale è bene fare un pò di luce su questa professione che, il più delle volte, vive su concezioni errate o superate ormai da decenni.
E’ da annullare innanzi tutto la convinzione che il restauratore si muova per tentativi nell’ambito di credenze empiriche che permettono l’uso di materiali alquanto dubbi quali: la cipolla o l’alcool incendiato nella pulitura, oppure l’uso di olio d’oliva per ridare vivacità e leggibilità ad un dipinto oramai sporco; inoltre è necessario sfatare quell’alone di mistero e di mito che porta a considerare i restauratori degli stregoni, delle persone che compiono miracoli, convinzione che, alcune volte, getta il restauro nel discredito e nella sfiducia.
Il restauratore non è un mago ma semplicemente un tecnico, “il medico dei quadri”, che non pronuncia incantesimi ma che esegue determinate operazioni legate tra loro da nessi logici. Se ripercorriamo brevemente le vicende storiche di questa professione possiamo vedere come il restauro abbia sempre camminato accanto all’arte assecondando gusti, usanze e concezioni della varie epoche e culture.
Nel Rinascimento, quando incisioni e copie dei dipinti ritenuti più importanti (copie eseguite anche dall’autore stesso), assicuravano sia la diffusione e la conoscenza delle opere, sia la loro trasmissione al futuro, il restauratore non esisteva: erano i pittori stessi che restauravano i dipinti. Il restauro poi consisteva nel riprendere l’opera e apportargli delle modifiche e dal punto di vista pittorico, anche solo dopo pochi anni dall’esecuzione.
Le motivazioni che portavano a questi cambiamenti erano svariate: le opere di pubblico dominio erano legate al susseguirsi di avvenimenti politici, storici, culturali; le opere private erano soggette al gusto del proprietario, il quale poteva preferire un paesaggio al posto dello sfondo neutro o il vestito azzurro invece di quello rosso. Esempio tipico del riadattamento delle immagini alle esigenze della moda e del culto ci viene fornito dalla Controriforma quando la maggior parte dei pittori che accettavano di 2resturare” i dipinti di altri artisti erano impegnati in un esame sistematico delle immagini e della loro epurazione quando queste non fossero pienamente ortodosse e convenienti (nelle Fiandre si era arrivati addirittura a coprire i piedi nudi della Madonna).
Sempre nei dipinti sacri un aspetto abbastanza usuale era quello di apportare correzioni ispirate al proposito di rendere più efficace l’intento devozionale dell’immagine con l’aggiunta di invocazioni o “preci”, di decorazioni sacre come una corona del Rosario o i simboli del martirio. Per quanto riguarda i ritratti spesso capitava che, essendo deceduto il personaggio ritratto, i parenti facevano “listare a lutto” la sua raffigurazione (questo continua ad avvenire anche più avanti nel ‘700 e nell’800); la fase di pulitura e capitato varie volte di trovare al posto di un nastrino nero al collo una collana di perle, sotto uno scialle di pizzo nero o dei nastri viola nei capelli un manto rosso o guarnizioni preziose.
Nel ‘600 il restauro diventa una professione vera e propria volta alla salvaguardia del patrimonio artistico: si cerca innanzi tutto di distinguere l’attività e la funzione del restauratore da quella del pittore o artista. Si apre così tutta una problematica su come conservare un dipinto o su come aggiustarlo se questi risulti danneggiato. Fioriscono i manuali che portano ricette per la preparazione di colle, collette, stucchi, solventi per pulitura e persino di vernici. Iniziano le dispute: c’è chi sostiene il restauro in quanto rifacimento totale delle parti mancanti di un oggetto sia esso dipinto, scultura o architettura.
“…rifare ad una cosa le parti guaste e quelle che mancano per vecchiezza, rabbrecciare, rinnovare…” afferma il Bellori, il quale salta oltre la capacità interpretativa del restauratore intesa come facoltà di sapersi impossessare dello stile di un altro artista. Guido Reni sostiene invece che non si può intervenire su di un opera modificandola, se non a breve distanza dalla sua esecuzione; e così pure Baldinucci esclude la possibilità di reintegrazione poiché i colori e i materiali in genere sono soggetti a processi di alterazione. Vasari invece si delinea come primo sostenitore del restauro conservativo, di quel restauro cioè che porta ad intervenire sulle condizioni ambientali nelle quali è posta l’opera, affinché ne permettano una buona conservazione.
Il ‘700 poi, offre nuovi elementi alla polemica: si fa avanti una nuova visione dell’arte, la personalità artistica, e di conseguenza l’originale diventa irripetibile. Inoltre l’oggetto artistico non viene più considerato un fattore isolato, ma si comincia a riflettere sulla sua ambientazione, sulle risonanze stilistiche, sul processo di riassimilazione: le opere che fanno parte di collezioni private o di gallerie principesche subiscono durante il restauro gravi alterazioni, specie per quanto riguarda le dimensioni. Numerosi sono i tagli o gli ingrandimenti sui dipinti; spesso la forma viene modificata totalmente: da quadrata diviene tonda, da rettangolare diviene ovale (sagoma considerata all’epoca più gradevole). Col diffondere della pratica del collezionismo il restauro vero e proprio viene affiancato dal “restauro commerciale”.
E’ così definito quel tipo di restauro che si identifica spesso con l’eseguire sui dipinti tutti quei lavori di pulitura, ridipittura, falsificazione, invecchiamento artificiale, legati al commercio dei quadri antichi. Si fa un grande uso di vernici giallastre e anche più scure, di patinature di vario tipo, per rendere il dipinto più vecchio di quanto effettivamente è. Le collezioni di dipinti antichi hanno cosi modo di arricchirsi con opere trafugate da chiese e musei, abilmente modificate in modo da esser rese irriconoscibili e facilmente esportabili.
Solo da qualche decennio, da quando cioè si è cercato di affrontare con maggior coscienza l’enorme problema del patrimonio artistico e della sua conservazione, il restauro è stato affiancato da altre discipline ausiliarie quali: la critica d’arte, la scienza, la medicina. Con questo non si è voluto accantonare il parere e l’operato del restauratore, il quale resta sempre l’operatore primo, la persona che più direttamente entra in contatto con l’opera e con la materia. E’ il restauratore che deve possedere una dose di sensibilità artistico-coscienziale superiore a qualsiasi altro operatore: solamente tramite tale sensibilità egli riuscirà ad agire sulla materia malata in consonanza alle sue caratteristiche e alle sue richieste, riportando il dipinto alla sua completa “unità logica” di opera figurativamente omogenea e tecnicamente eterogenea. Lo storico, il radiologo o il chimico daranno il loro apporto solo quando il restauratore lo riterrà opportuno, quando cioè la prima e sommaria analisi delle caratteristiche stilistiche, materiche, visivo-sensoriali del dipinto, darà risultati dubbi e ambigui.
Si procederà allora, come avviene in medicina, ad una rigorosa analisi dei sintomi e delle cause del manifestarsi di una malattia, quindi alla definizione della natura del male e alla scelta di questa o quella terapia. I mezzi usati per fare analisi fanno parte di quel nuovo aspetto del restauro che va sotto il nome di “Diagnostica Artistica”, la quale comprende: radiografia, riflettografia monitorizzata, indagine all’ultravioletto. La diagnostica trasforma l’oramai sorpassata immagine soggettiva dell’opera, legata all’esperienza dell’esecutore e ai limiti dell’apparecchiatura impiegata, in una documentazione obbiettiva che garantisce al restauratore una percentuale di rischio molto inferiore è gli offre una maggiore chiarezza mentale ed esecutiva. Questo per quanto riguarda il restauro preventivo, conservativo è soprattutto per la pulitura. Per il restauro pittorico il discorso è diverso. Come abbiamo visto il restauro è sempre stato considerato innanzi tutto un fattore estetico e quindi si è sempre cercato di “abbellire” con ridipitture l’opera a seconda del gusto dell’epoca, oggi giorno invece siamo portati a considerare il dipinto anche e soprattutto dal punto di vista storico.
Il restauro pittorico quindi deve mirare al ristabilimento dell’unità potenziale dell’opera d0’arte, purché ciò sia possibile senza commettere un falso storico o un falso esoterico. Ne deriva che l’integrazione dovrà essere facilmente riconoscibile e, per non infrangere l’unità che si tende a ricostruire, sarà invisibile alla distanza da cui si guarda l’opera, ma subito individuabile da vicino; in tal modo si avrà l’esatta conoscenza di quale sia l’originale.
Un ultimo punto fondamentale che individua la nuova “teoria” del restauro, è la preoccupazione che ogni intervento di ripristino non debba rendere impossibili gli eventuali interventi futuri, anzi debba facilitarli.
Scenografia barocca
Per poter affermare che una scenografia è barocca non è sufficiente osservare i singoli elementi che la costituiscono, riconoscendoli come caratteristici dell’arte aulica del Seicento, è necessario piuttosto prendere in considerazione una serie di fattori rilevabili solo da uno sguardo di insieme ai vari “quadri” che costituiscono lo sfondo di un in’ntera opera.Ma questi fattori all’interno dello stesso periodo barocco, sono mutati e nella stessa proporzione sono mutate le scenografie. Intendendo delineare brevemente una direttiva di sviluppo Barocca, fissando le sue fasi principali , cominceremo con notare quanto sereno e statico equilibrio ci fosse nell’immagine scenica degli autori del primo ‘600 Ogni parte di questa gode di una relativa autonomia lo possiamo qui vedere nell’intermedio I dell’Giudizio di Paride” portato ad esempio dove sentiamo ancora la pregnante presenza del carattere rinascimentale: la profondità spazi è limitata e tutto s’in spera ad una moderna fantasia. Poco piu’ avanti nel tempo nei bozzetti di Alfonso Rivarola detto il Chenda cominciammo a notare l’interesse per il gioco prospettico che accentua la tensione dello sguardo finché nelle scene di Jacopo Torelli l’illusione dell’inferno vince sulla bidimensionali del fondale, per ripetersi in soluzione sempre piu’ ossessiva ed esasperata come avviene nella incisione di Marcantonio Chiarini
Il mobile Toscano
I mobili occupano un posto particolare nel mondo degli oggetti, utili o inutili che siano, che segnano il cammino del nostro vivere. Sulla produzione dei mobili restano molti interrogativi, artigianato e industria sono termini difficilmente scindibili.In Toscana, per esempio, esiste una tradizione artigiana fortemente radicata in cui si rivela un forte legame con le forme e gli stili ereditati da una storia secolare fortemente radicata, in cui si rivela un forte legame con le forme e gli stili ereditati da una storia secolare accanto ad un mondo più evoluto di produrre, di organizzare il lavoro e di concepire il prodotto. Il grande approvvigionamento del legno in grandi cataste, marchiate, stivate e stagionate all’aperto, permette di garantire un prodotto pronto all’uso in qualsiasi momento.Ogni tavola viene minuziosamente esaminata per scartare le parti difettose contenute, come “nodi cadenti”, “cipolle”, “sciograture” ecc…Il legno, selezionato, viene stivato in un magazzino a temperatura costante affinché si verifichino le perdite di umidità perché il legno per noi è materia viva, respira e subisce i processi negativi degli agenti atmosferici.Prima di procedere alla lavorazione si controlla la stagionatura di ogni singola tavola assicurando che non ci siano difetti, poi avviene la prima operazione: il taglio con la sega. Vengono effettuati gli incastri, le cave le scorniciature alla “tronfia” e la levigatrice a piano provvede alla carteggiatura, dopo di che ogni operazione è affidata alla manualità degli artigiani.Ogni singolo pezzo è preparato al banco con gli attrezzi usuali per la lavorazione artigiana del legno, entrano in gioco, la morsa a vite, lo scalpello, il pialluzzo, lo sbozzino, la sgabia la lima.Ogni pezzo è plasmato pronto ad unirsi, ad incastrarsi nella nuova dimensione di forma: il mobile.Quest’ultimo viene colorito con un procedimento antico e particolare, senza coloranti ma con sostanze alcaline che a contatto con il legno di castagno faranno fuoriuscire l’acido tannico contenuto, auto colorandosi. Solo così vervature e preziose ombre naturali della materia, riaffiorano e si mantengono vive nel tempo. Su queste superfici viene stesa una mano di sottofondo a supporto della cera che verrà fissata in seguito. L’ultima fase della lavorazione, prevede che ogni sedia tavolo o credenza, sia portato in un ambiente climatizzato affinché la lavorazione possa fissarsi completamente. E il mobile è pronto per la patinatura e per la carteggiatura a mano.Queste fasi di lavorazione sono ancora oggi utilizzate per la lavorazione e la costruzione dei mobili utilizzate dalle più importanti aziende nel cuore della toscana.
Lavorare il legno…
Parlando di falegnami si e soliti dire che i due più famosi della storia sono San Giuseppe e Mastro Geppetto. Dati certi su di loro non esistono anche se esistono, anche se esiste una buona quantità di informazioni e di fonti iconografiche. L’iconografia religiosa ci ha abituati a Giuseppe falegname che impugna i tradizionali ferri del mestiere, così come siamo abituati a conoscerli. Si sa che le rappresentazioni pittoriche tendono ad attribuire ai personaggi raffiguranti fattezze, abbigliamenti ambienti propri dell’epoca in cui vive l’autore dell’opera. In particolare per quanto riguarda Giuseppe, l’iconografia che più frequentemente ce lo mostra al lavoro, ci presenta un uomo barbuto e drappeggiato di manti che impugna il suo bravo martello la sega a telaio, la pialla. In questo caso però non siamo davanti ad un falso storico molto grave, perché gli strumenti che il falegname Giuseppe ed i suoi colleghi di duemila anni fa, erano sempre gli stessi. Nella falegnameria l’evoluzione degli utensili ha subito una svolta non solo con l’avvenuto della meccanizzazione di alcuni strumenti, ma anche laddove la tecnica di lavorazione è radicalmente cambiata con il rinnovamento tecnologico, qui ci si è fermati appunto allo stato della meccanizzazione, anche perché il legno nella produzione industriale è stato sostituito da altri materiali, e il falegname è rimasto sostanzialmente un artigiano. Se si vuole Usare il legno lo si deve tagliare, piallare, assemblare i pezzi: so fa meno fatica ma le operazioni sono le stesse di duemila anni fa; il martello poi è rimasto insostituito ed insostituibile: perché la sua manualità è indispensabile. Quello che è cambiato forse è il disegno dell’oggetto, e soprattutto negli ultimi anni, più per le esigenze del bricoleur che dell’ artigiano.
EZE-LA-BELLE, VERA OASI MEDIEVALE
Il suo nome deriva da Isia, dea dei fenici, ma il ricordo piu’ vivo di Eze Village è quello dell’epoca medievale, ancora più presente e visibile.
E’ situato solo a
Eze nella quasi totale integrità del suo legame con il passato, è necessario addentrarsi nella storia, non tanto quella poco leggibile e oscura che vede Pelagi, Etruschi e Fenici alternarsi o competere per il posto dei veri antenati degli abitanti di Eze, ma la storia più sicura e attendibile che assegna da una parte ai Celti, dall’altra ai liguri il ruolo di suoi padri adottivi, i primi conquistatori, i secondi dominati, tanto dissimili nel carattere ma in grado di convivere in pace nella sorte comune della dominazione romana avvenuta più tardi che mise fine alle discordie tra loro, ma ovviamente ne creò altre. Dal governo di Roma al succedersi dei popoli Barbarici, dopo la caduta dell’Impero, dai Saraceni alla liberazione ad opera di Guglielmo, conte di Provenza nel X secolo. Sorvoliamo l’età medievale che, a parte una serie di transazioni, donazioni, divisioni e investiture, non lascia documentazione alcuna che riveli i segreti del villaggio di Eze. Solo il flagello della peste diviene degno di nota storica, vedendo la confraternita dei penitenti bianchi operare coraggiosamente nell’assistenza dei colpiti dal male mortale. Per avere una data memorabile bisogna giungere al 1792, quando con l’arrivo dei Sanculotti viene confermata l’unione di Eze alla Francia: nel 1860, anno dell’Unita’ d’Italia, il popolo di Eze vota all’unanimità per la definitiva annessione alla provincia di Nizza allo stato francese. Con le parole di Gorge Sand concludiamo la breve visita a “Eze-la-Belle”, con un’occhio ancora al paesaggio, suggestivo ed emozionante:”Il panorama della cornice è veramente un’incanto… ad ogni passo la costa sinuosa offre un magico decoro… Le rovine di Eze, appollaiate su un cono di roccia, con un pittoresco villaggio che pare di pan di zucchero, cattura l’attenzione. E’ la più bella vista dell’itinerario, la più completa, la meglio composita”.
DISEGNI E VOLUTE PER SPAZI VIRTUALI
Le eleganti volute dei cancelli risvegliano l’interesse per un manufatto che, pur adattandosi nel tempo ai diversi stili architettonici,ha scritto un capitolo a parte nella storia delle arti.Questa panoramica semplificativa della produzione degli artisti del ferro che segue l’evoluzione dei cancelli dal Medioevo al Liberty racconta della sempre più curata funzione ornamentale di questi elementi per definire spazi virtuali per chiese e palazzi un’arte fatta di abilità e fantasia.E’ nella natura di un cancello delimitare uno spazio escludendone i più,ma il suo fascino sta nell’addolcire o,al contrario,nel rendere più amaro il divieto concedendo la visione di quello che sta al di là di esso,magari attraverso volute eleganti,disegni preziosi come una trina.Materia prima in cui sono forgiati i cancelli e il ferro,un metallo che ha accompagnato l’uomo fin dall’antichità,ma non nella realizzazione di oggetti artistici,perchè fino al Medioevo non si possedevano le conoscenze tecniche necessarie a rendere il ferro facilmente lavorabile.La storia dei cancelli in ferro inizia nel XII secolo e soltanto nel Duecento alla funzione puramente utilitaristica si aggiunge un’esigenza decorativa che dà luogo ai primi splendidi esempi di cancelli in ferro battuto,per altro destinati esclusivamente ad abbellire luoghi di culto,nella cui realizzazione si dimostrarono particolarmente abili i fabbri francesi.In Italia l’arte di lavorare il ferro per farne cancellate si fa strada soltanto nel Trecento;motivo caratteristico nella loro decorazione è il quadrilobo che,con modifiche e aggiunte,resiste fino a tutto il Cinquecento.E’ in questo periodo che i manufatti in ferro battuto si estendono dalle chiese alle dimore patrizie che,ma solo in Italia e Spagna,cominciano a circondarsi di grandiose cancellate.Un cambiamento sostanziale nella decorazione dei cancelli si verifica con l’avvento del Barocco;nuove conoscenze consentono di rendere il ferro più facilmente lavorabile e di piegarsi alle curve fantasiose,alle volute e ai fregi che caratterizzano il nuovo stile di cui maestri indiscussi,come in molte espressioni artistiche,sono i francesi.Nell’Italia settentrionale questa influenza è molto forte,anche se i modelli d’oltralpe vengono rielaborati in base alle tradizioni locali.Durante il Seicento e nel settecento con il Rococò il tipo di cancello più diffuso è caratterizzato dalla presenza di motivi vegetali nella parte inferiore e da una cimasa curvilinea con volute e riccioli.L’azione concomitante dello sviluppo delle tecniche di fusione e del mutamento del gusto decorativo porta,tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento a un cambiamento sostanziale nell’aspetto dei cancelli:non più elaborati motivi di ispirazione vegetale,ma schemi essenziali completati da rosette,borchie e nastri,temi decorativi caratteristici dello stile Neoclassico.Il ferro battuto viene sempre più spesso sostituito dal ferro e dal bronzo fusi,con i quali si realizzano sia cancellate che ringhiere di balconi.La vecchia tecnica del martellamento non è però messa definitivamente da parte,anzi nella seonda metà dell’Ottocento correnti artistiche come le Arts and Crafts le danno nuovo impulso.In seguito esponenti di primo piano del movimento dell’Art Noveau fanno del ferro,sia battuto che a fusione,un protagonista eccentrico delle loro realizzazioni.
Il legno che “canta”…
Un disegno, una forma di legno che riproduca gli esatti contorni del futuro violino. Abete ed acero fanno il riccio, manico, filetto, fasce, tavola e fondo. Qualche accessorio una ventina di buone mani di vernice, e lo strumento è fatto…..
Già, ma come suonerà? … Ecco, questo è il punto cruciale del “dossier violino” lungo tutti e quattro secoli della sua vita dedicata alla musica.
I suoi antenati suonavano nelle sale del basso medioevo, quando tutta la famiglia delle viole da braccio, magari insieme ad altri strumenti o a fianco di menestrelli popolari o cortigiani, allietava con vibrazioni gentili, gli schiamazzanti saloni dei manieri signorili. Finché, verso la metà del XVI secolo, un bel giorno qualcuno “Sentì” che i tempi erano maturi per far nascere un nuovo strumento, che potesse emergere dall’anonima marea degli strumenti nati o perfezionati durante i 5 secoli Medioevali, e per il quale i compositori avrebbero scritto una nuova musica.
E qualcosa del genere in effetti accadde. La musica classica era alle porte, il lungo periodo della preistoria della musica colta stava per finire: Monteverdi, Vivaldi, Bach avrebbero di li a poco acceso la miccia alla seconda rivoluzione musicale.
Il “piccolo” violino entrò direttamente in rapporto dialettico con questi fermenti, insieme agli altri nuovi membri della sua famiglia, i violoncelli e i contrabbassi, co-protagonisti della nuova musica e ispiratori dei nuovi compositori e, coinvolto da tanta responsabilità, non potè deludere i suoi sostenitori e, soprattutto, i suoi costruttori, coloro i quali gli avevano dato la voce…I loro nomi sono noti: dal cinquecentesco Andrea Amati, capostipite della scuola classica cremonese che aprì bottega nella contrada dei cortilinari, al più famoso Nicolò Amati, indiscusso maestro Liutaio della prima metà dal ‘600.
Gli arcinoti Giovanni Guarneri (1698 – 1744) detto “Del Gesù” per il modo in cui fermava i suoi strumenti, e Antonio Stradivari (1644 – 1737), probabile allievo di Nicolò Amati, nonché massimo rappresentante del sistema di costruzione classico Cremonese, detto “Della forma interna”. Si racconta che Stradivari, “tipico uomo rinascimentale, geniale, metodico, sempre teso nello sforzo di sposare arte e scienze, riassunse l’esperienza di 150 anni di liuteria, rivitalizzandola scientificamente con precisi principi di chimica e fisica acustica”.
Stradivari, primo fra tutti, non lasciò nulla al caso: dal minuzioso ed essenziale studio della forma, e delle dimensioni del nascituro strumento, alla rigorosa ricerca del materiale (Abete rosso maschio per il piano, Acero per il fondo), dalla meticolosa fase costruttiva al particolarissimo sistema di verniciatura in due tempi con antiche ricette e nuovi ricercati ingredienti. Ebbene la scientificità con la quale questo geniale liutaio affrontò la costruzione dei suoi violini, ebbe non solo il risultato di mettere a disposizione dei suoi contemporanei degli strumenti eccezionali e irripetibili, ma lasciò tracce ben definite del suo lavoro così da poter servire come eredità a pochi artigiani che in seguito vollero raccogliere, tra i quali Omobono e Francesco figli di stradivari, che malauguratamente sopravvissero di poco al longevo padre. Analoga sorte toccò ai Guarneri, tanto che si può tranquillamente sostenere che l’apice qualitativo e quantitativo nella costruzione del violino col metodo classico Cremonese, fu esclusiva della prima metà del XVIII secolo. Poi, trentanove anni dopo la morte di stradivari, il “Reggio delegato all’economia camerale e militare della Lombardia, Gianluca Pallavicini”, stretto collaboratore di Maria Teresa d’Austria, soppresse a Cremona le corporazioni d’Arti e mestieri. Fu, questa, una delle tante riforme che dettero addio a mutamenti sociali e politici di portata continentale, ma che nello stesso tempo, segnò per la famiglia degli strumenti ad arco, una rottura storica con i preziosi modo di produzione del mondo antico… Molte botteghe si chiusero ed i mercati decaddero. Lo smantellamento della struttura interna dell’arte e dei mestieri, produsse una crisi non soltanto nei giovani che intendevano imparare ma soprattutto nei maestri di bottega i quali persero ogni e qualsiasi prerogativa assegnata all’antico “Magister” che poteva avere sotto di se, per un certo numero di anni, garzoni, apprendisti e praticanti. Si perdettero persino gli insegnamenti e gli allievi non si raccolsero più intorno a “Chi sapeva”… Il tramonto delle vecchie Universitatis ha privato il mondo della musica di un’arte che non è stata più continuata. Ma un terso elemento concorse ad assottigliare ulteriormente le gia sparute fila dei liutai che seguirono il metodo costruttivo stradivariano, e fu la formazione delle prime grandi orchestre sinfoniche che fece aumentare vertiginosamente la richiesta di strumenti ad arco. Nei decenni a cavallo del 1800 assistiamo quindi ad un incremento quantitativo dell’attività liuteria a sensibile discapito della qualità e vediamo difatti affermarsi il metodo costruttivo alla francese, detto della “Forma esterna”, di più rapida realizzazione e rispondente perciò alle esigenze dei tempi. Ecco che quattro secoli di lavoro creativo e di tradizione empiriche e quasi misteriche sulle forme della tavola e del fondo, sulle posizioni delle effe, sull’anima dei legni, delle vernici, non furono più utilizzabili al meglio della loro riuscita. Si affermò quindi un irreversibile processo di dispersione del più puro patrimonio liutaio, e ci si avviò verso un lento ma inesorabile surrogato della tradizione creativa, per lasciare il posto ad una tradizione di sopravvivenza talora di buon livello, ma una tradizione-feticcio, da alcuni chiamata “Cultura liutaria dell’imitazione”.Dobbiamo aspettare i recenti anni ’50 per avere la cronaca delle prime iniziative di personaggi come Simone Sacconi (liutaio restauratore presso la Wurlizer di New York), che tentò di far ripartire gli arrugginiti ingranaggi della liuteria classica: e rimettere in piedi correttamente il rapporto uomo/materia nell’artigianato musicale era un programma ambizioso non solo per ciò che è andato perduto nelle tecniche costruttive, ma per quello che si perde oggi nella frenesia distruttiva e consumistica, della vita del lavoro quotidiano. La proposta non è però caduta nel vuoto, I liutai cremonesi, ad esempio, si sono associati e ed organizzati, e molti altri si stanno ridestando dal lungo sonno. E i risultati qualitativi si possono già documentare, anche se lo strumento moderno deve ancora vivere, suonare, cioè crescere alimentandosi proprio con ciò che produce: il suono, appunto… come potete vedere, la fretta e da sempre nemica del buon violino.
Gli stili usati in Italia nel corso degli anni
Tabella cronologica degli stili usati negli anni in Italia
periodo | stile |
Da |
Gotico Internazionale |
da |
Primo Rinascimento |
da |
Pieno Rinascimento |
da |
Tardo Rinascimento e transizione al Baroccco |
da |
Primo Seicento |
da |
Barocco |
da |
Tardo Barocco |
da |
Barocchetto e Rococò |
da |
Neoclassico |
da |
Direttorio |
da |
Impero |
da |
Luigi Filippo o Carlo Felice |
da |
Secondo Impero o Pieno Ottocento e Neogotico |
da |
stili Neorinascimentali in parallelo allo stile Floreale e Liberty Italiano |
da |
Liberty |
da |
tendenze varie ispirate al Deco’ |
Varie essenze e gomme d’angelo
Un luogo comune alquanto consolidato suole contrapporre l’artigiano all’industria moderna.Tuttavia sebbene questa contrapposizione non sia priva di verità, esistono ancora alcuni settori industriali in cui questi due aspetti sembrano fondersi; tra di essi vi è il settore mobiliero.Qui talvolta accade di trovare industrie in cui il moderno è presente solo nella dimensione degli spazi e del numero degli addetti mentre tutti quanti gli altri aspetti, quale l’uso di determinati modelli o l’amore per la manualità, non si distaccano alcunché dalla tradizione artigianale.Ed è solo grazie a questa unione, tra tradizione artigianale ed industria moderna, che alcuni procedimenti potranno essere tramandati nel tempo.Infatti via via che gli artigiani invecchiano e scompaiono, si va esaurendo la grande tradizione delle botteghe mobiliere, una tradizione ne scritta ne parlata, ma fatta di gesti appresi in lunghi anni di duro e paziente lavoro.L’ottima scelta di poche case d’arredamento, è stata quella di integrare un’azienda moderna con l’esperienza di artigiani che altrimenti sarebbe andata persa.Queste ditte hanno deciso di dedicare la maggior parte della loro produzione ai mobili antichi, qui l’aggettivo “antico” non è usato a sproposito dato che i mobili prodotti, non solo di rifanno a quelli originali nelle forme, ma subiscono le medesime fasi di lavorazione che sarebbero state effettuate da un abile artigiano.Qui antiche forme di lavorazione come l’intarsio e la lucidatura a mano vengono effettuate secondo l’antica tradizione; l’intarsio viene ottenuto impilando vari supporti, ed alternandoli con essenze di legno, (strati di legno di 6 o 8/10 di millimetro). Tutto poi viene passato al traforo che provvede a tagliare, secondo un disegno prestabilito, le essenze; queste vengono ombreggiate mediante l’immersione in sabbia rovente. Poi avviene la lucidatura; qui sono bandite le tinteggiature sintetiche e poliuretaniche e viene ancora utilizzata l’antica tintura all’acqua all’anilina che viene poi lucidata mediante una miscela di gomma d’angelo e alcool.Questa miscela viene posizionata su mobili da lucidare e stesa con un procedimento che solo l’esperienza può permettere d’effettuare senza errori.Il tampone infatti deve girare sempre nel medesimo senso, e deve essere mosso più uniformemente possibile in quanto che ogni sosta produrrebbe degli scompensi nella colorazione e nella lucidatura. Questa operazione deve essere ripetuta molte volte, onde poter ottenere quella particolare lucidatura antica. Ma aldilà di questi aspetti tecnici, importantissimo in per sé è l’amore per la tradizione, per il bello, ed il coraggio di aver rinunciato a certe tentazioni innovative che hanno portato troppo spesso a deturpare l’antico, con dubbie manomissioni.
Il Simbolismo nell’arte dei tappeti
Il simbolismo nell’arte dei tappeti, è uno degli argomenti più affascinanti e discussi: quante volte, attratti dal gioco delle forme e dei colori, abbiamo tentato di ravvisare chissà quali messaggi provenienti da una realtà poco conosciuta e, che per questo, ancora più ci coinvolge e ci stimola.Il tappeto per noi è uno dei tanti oggetti ornamentali, per gli orientali, è un modo di vita, da quando lo tessono a quando lo usano.I simboli che l’artigiano con arte vecchia di secoli, riannoda pazientemente, hanno perso il loro significato iniziale, per assumere quello di testimonianza ancora viva delle tradizioni, di un passato che si rinnova e si tramanda.Questi simboli hanno radici lontane, non sono nati per caso ed hanno subito nel corso dei secoli, tutte le influenze ed i cambiamenti che scambi culturali, religiosi e commerciali poterono favorire.La loro decodificazione quindi può essere, tenuto conto di questi cambiamenti, oggetto di studio ma non deve divenire un’ossessione.A volte motivi e segni a cui si vorrebbe dare un’interpretazione, altro non sono che “Sviste d’autore”; è bene ricordare che l’artigiano, non vuole tramandare messaggi, ma solo ed esclusivamente le sue tradizioni, egli quindi si ispira ad esse e alla natura.Vorrei parlare in particolare di un tipo di lavorazione nell’arte del tappeto, quello Caucasico.Il tappeto Caucasico, e un tappeto dall’assoluto rigore geometrico, il suo disegno è un gioco continuo di triangoli, esagoni, quadrati. Nel suo complesso si possono trovare, accostati a simboli elementari e tribali, simboli più complessi ma in ogni caso tutti riprodotti senza alcuna concessione allo svolazzo, al ricciolo, alla divagazione. Ma oltre alle figure geometriche, altri stilemi sono ricorrenti in questa produzione: la stella a otto punte dei medi, quella a sei punte dei maomettani, il gancio per molti derivazione della Svastica o nelle zone meridionali, si possono trovare raffigurazioni di persone e animali.
Le case degli Italiani
Non è facile per il titolare di un negozio di mobili avere a che fare con molti e diversi stili arredativi presenti sul territorio italiano: stili difficilmente definibili, senza regole, radicati nella prassi, nella sensibilità più immediata condizionati dai diversi contesti, sociali ed economici della penisola.Qui di seguito, azzarderemo un elenco degli stili arredativi presenti nelle case italiane, cominciando dal più diffuso fino ad arrivare al meno comune.
La casa Trasandata: ospita mobili di ogni tipo che assolvono alle funzioni elementari dell’appoggiare, contenere, mostrare, senza alcuna relazione tra loro, ingombri fisici sciattamente collocati qua e là senza progetto di spazio o di luce. Le parti non stanno con il tutto e il tutto è una combinazione casuale o dettata dalla necessità.
La casa della Provincia: nella variegata e contraddittoria provincia italiana, c’è di tutto, come se stili e gusti, storia e cronaca si siano miscelate nel tempo sedimentandosi in arredamenti compositi che mettono insieme localismo, decorazione, buono e cattivo gusto, quadri da pittori della domenica e oggetti da santuario, cineserie, pacchianeria, mercatini dell’antiquariato e modernità… senza alcun filtro culturale se non quello degli oggetti da conservare per motivi affettivi.
La casa del Mobiliere: Solitamente collocata nelle grandi periferie, è arredata soprattutto dalle industrie moderne del mobile, ma anche dal radicato e ricco artigiano locale tecnicamente esperto e culturalmente tradizionalista. E’ il segno banale del benessere acquisito che tappezza le case di pannello truciolare monocromatico o guarda alla borghesia ottocentesca mimando gli stili del passato.
La casa Contemporanea: è segnata dai sistemi diffusi dall’industria del mobile a partire dagli anni ’80, mobili componibili, grandi armadiature, scaffali attrezzati con qualche vetrina e chiusi da qualche antina. Questi sistemi nascono per essere duttili, e finiscono per essere rigidi, ingessando milioni di case dentro schemi geometrici ottusi e monotoni, senza estetica autonoma.
La casa degli Stili: i tradizionalisti che non accettano la semplicità del pannello tecnologico portano in casa gli stili che formalmente imitano il passato riempiendo le case di periferia con volumi ingombranti e irrazionali, con mobili furbescamente massellati che danno false certezze di qualità e si rifanno alla storia dell’arredamento.
La casa Rustica: è la casa degli amanti del legno massiccio, bello da vedere e da toccare, che emana colore, naturalezza e artigianalità. Si tratta di un gusto popolare diffuso ovunque, improntato ad una certa rozzezza o, per i più sofisticati, modellato sulla gentilezza delle forme e dei tenui cromatismi dello stile Country.
La casa Borghese: racchiude tutte le certezze del passato insieme alle sicurezze del presente, cassettoni di varie epoche, vetrine zeppe di cristalli e porcellane, grandi divani pieni di cuscini, accoglienti poltrone, tappeti e quadri, oggetti sparsi ovunque. Tutto sembra imbalsamato tranne che in cucina, dove normalmente la famiglia vive tra acciai e tecnologie avanzate.
La casa di Lusso: in essa si vede la mano dell’arredatore che ha il senso del bello ma che lo ha definito in modo rigido e simbolico, caricando lo spazio con schemi di moda, senza naturalezza, senza intimità, senza vera consonanza con la vita quotidiana di chi abita questi spazi.
Non è facile arredare senza cadere in uno degli atteggiamenti descritti. Non è facile raggiungere una buona sintesi di linguaggi, segni, materiali, stili, tipologie di prodotti. I percorsi progettuali corretti si scontrano con la sfera del gusto, che è soggettiva; mentre la sfera della cultura e della misura è ancora troppo elitaria. Da qui la difficoltà di arredare dignitosamente, nel rispetto delle regole della “Libertà di gusto”. Lo stile senza gusto cade nella ripetitività. Semplicità, eleganza, ricchezza cromatica di materiali, luci e volumi diversi sono ottenibili solo con un progetto che tutto unisce e armonizza anche nei contrasti.E’ questa la missione del rivenditore di mobili, adattarsi alle regole del progetto per definire meglio i gusti dei suoi clienti.
Il negozio d’Arredamento
Che cos’è un negozio d’arredamento? E’ l’espressione di un contenuto immateriale raccontato da prodotti e da schemi ritmici e stilistici di tecnica espositiva. Il negozio è come una poesia, la poesia della casa, composta da canti, sestine, quartine e terzine… a disposizione di chi la vuole leggere, godere, comprare. E’ questa la missione di chi gestisce un negozio di mobili: fare il poeta della casa, scrivere poemi di varia ispirazione stilistica tante quante sono le case che arreda, usando tutte le possibilità creative e suggestive della mente (cultura), dell’intuizione (personalità), della fantasia (creatività), e della tecnica (professionalità).Se è vero come è vero, che i poeti nella millenaria storia della letteratura sono pochi, non si potrà pretendere che siano molti i poeti della casa. Si deve però pretendere che tutti possiedano almeno le tecniche basilari della buona prosa e che parlino una dignitosa “Lingua Arredativa”.Infatti, anche la prosa ha i suoi valori stilistici: può essere chiara, lineare, curata, elegante, ricca, drammatica, discorsiva… C’è spazio, quindi, anche per i prosatori.Mentre non ci dovrebbe essere spazio alcuno per i maneggioni, per i superficiali, per quanti ignorano perfino la grammatica dell’arredamento. Il negozio di mobili deve stupire e ammaliare con sua forza creativa e convincere con la sua qualità discorsiva; deve essere poesia da godere e prosa da capire.Se l’acquisto più importante è quello della casa, subito dopo, nella scala dei valori, dovrebbe esserci – prima dell’automobile, prima del vestiario, prima di ogni bene superfluo – l’arredamento, cioè la membra, le funzioni, il linguaggio della casa. Proprio qui si colloca la responsabilità di un negozio di mobili: dare potenziali linguaggi, estetici e funzionali, a muri senza gesti e senza parole.