INDUZIONE, attrazione magnetica
“IL NUOVO SISTEMA DI COTTURA STA PRENDENDO PIEDE NEL MERCATO ITALIANO ATTRAVERSO CONSUMATORI ATTENTI ALLE NUOVE TECNOLOGIE E AL DESIGN RAFFINATO E ATTUALE”
I piani di cottura ad induzione, approdati sul mercato degli anni Settanta, hanno conquistato ormai la maggior parte dei consumatori in Francia, Germania e nei Paesi dell’Europa settentrionale. In Spagna, Paese come l’Italia tradizionalmente legato alla cottura a gas, in 10 anni l’induzione ha raggiunto il 50% delle vendite.
Nel nostro Paese, invece, questo nuovo modo di cucinare sta prendendo piede solo da qualche tempo e coinvolge una convinta, seppur piccola parte d’utenti affascinati dalla più moderna tecnologia e da un design accattivante. Lo stile minimal e pulito di questi piani neri lucidi e perfettamente in linea con le cucine contemporanee, li rende, infatti, un vero e proprio status symbol.
TECNOLOGIA NEW AGE
La cottura per induzione avviene grazie ad alcune bobine posizionate sotto il piano in vetroceramica e alimentate da un generatore elettrico; una volta attivate le bobine creano un campo magnetico che, al posizionamento di una pentola sul piano viene chiuso, adattandola a permeare di corrente induttive. Queste correnti trasformano pio la pentola in un vero e proprio conduttore di calore: anziché agire sotto la superficie del piano, come avviene nei tradizionali piani cottura, agiscono direttamente alla base della pentola e il calore viene trasmesso direttamente al cibo, riducendo in questo modo i tempi di cottura. Per far sì che le bobine poste sotto il piano vengano attivate, è necessario utilizzare solo utensili a fondo ferritico, come ad esempio pentole in ferro, acciaio smaltato o inox. Materiali come il rame o il vetro, invece, non attivano il processo induttivo.
Nulla si rompe o si rovina, ma semplicemente se il materiale della pentola non è corretto, il processo di cottura non avviene. Alcuni tra i più moderni piani sono dotati di sensori che segnalano immediatamente l’utilizzo di materiali non compatibili. Un mito da sfatare è la difficoltà nel reperire le pentole e il loro costo. Sempre più spesso le pentole che si trovano sui punti vendita e nei grandi magazzini presentano il simbolo riguardante l’induzione e costano esattamente come le normali pentole utilizzate quotidianamente. Inoltre l’induttore individua esattamente la dimensione della pentola e di conseguenza si attira solo ed esclusivamente da quella parte che è a contatto con la pentola stessa garantendo omogeneità di cottura.
TUTTI I MERITI
Uno dei principali vantaggi dell’induzione, a fronte anche del radicale cambiamento degli stili di vita, è certamente la rapidità con cui viene riscaldato il cibo, possibile grazie all’azione diretta del calore sulla base della pentola. E’ stato infatti calcolato che i tempi per portare a ebollizione l’acqua per la pasta, oppure per scaldare l’olio per una frittura, ottenuti grazie alla tecnica a induzione sono addirittura la metà di quelli necessari con la cottura a gas: con il processo induttivo, grazie al fatto che non vi è dispersione di calore, sono ad esempio sufficienti solo tre minuti per portare ad ebollizione un litro d’acqua, contro i sette dei piani di cottura elettrici in vetroceramica e i cinque di quelli a gas.
E’ stato poi ampiamente dimostrato da alcune analisi fatte dalle aziende del bianco, che l’induzione ha un indice del rendimento del 90% ed è la tecnologia ad oggi più efficiente sul mercato. Inoltre la zona cottura si accende solamente quando viene appoggiata sopra la pentola, per poi spegnersi automaticamente alla rimozione di questa. Tutti questi fattori portano di conseguenza ad un notevole risparmio energetico. Ma proprio sul panorama energetico italiano bisogna fare una precisazione: nel nostro Paese è stata molto rallentata l’introduzione dei piani di cottura a induzione causa dell’elevato assorbimento nominale di questi modelli rispetto alla portata massima dei contatori (3 kW – 3.3 kW) installati nelle case italiane. Anche su questo punto è necessario però fare qualche precisazione: l’assorbimento nominale indica l’energia necessaria a mantenere accesi alla massima potenza tutti gli induttori insieme, una situazione più teorica che reale. L’utilizzo delle normali potenze per cucinare, invece, consente di utilizzare addirittura tutte e quattro le zone contemporaneamente con un assorbimento assai più limitato. Ad esempio un contatore da 3 kW è più che sufficiente per gestire una situazione limite in cui si preparano contemporaneamente una pasta, un sugo, delle bistecche e un contorno. In questa situazione, si assorbono meno di 2.5 kW. Alcuni prodotti posti sul mercato inoltre, hanno la possibilità di autoelimitare la potenza assorbita a un livello compreso tra i 2kW e 10kW per adattare il piano alla potenza del contatore ed evitare di far saltare la corrente. Test effettuati da gestori multiutilities italiani hanno dimostrato che cucinare a gas e cucinare a induzione ha lo stesso impatto sulla spesa familiare. Qualcuno pensa inoltre che, oltre al tradizionale legame con la cottura a gas, in Italia non esista abbastanza energia per supportare la tensione dovuta all’utilizzo di piani a induzione in tutte le case. La lenta penetrazione del prodotto, però, dovrebbe dare tempo alle compagnie elettriche di adattare le infrastrutture alle nuove esigenze come avvenuto con la diffusione dei condizionatori.
SICUREZZA E PULIZIA
I piani ad induzione si caratterizzano per l’assoluta sicurezza. Non solo si può eliminare il gas dall’appartamento rendendo la casa decisamente più sicura. Ma anche il piano, di per sè, è molto più sicuro di un metodo tradizionale: la zona cottura infatti viene attivata solitamente se viene a contatto con la pentola evitando quindi accensioni accidentali da parte soprattutto dei bambini; inoltre, visto che il calore viene generato direttamente sul fondo della pentola, la superficie del piano rimane quasi tutta fredda, senza quindi il rischio di possibili scottature. Per quanto riguarda le operazioni di pulizia bisogna sottolineare che la superficie del piano è completamente liscia, senza quindi il rischio di possibili scottature. Per quanto riguarda le operazioni di pulizia bisogna sottolineare che la superficie del piano è completamente liscia e questo facilita certamente la pulitura. Inoltre, rispetto ai piani di cottura elettrici in vetroceramica, la superficie del piano rimane quasi sempre fredda, come già detto, e in ogni caso, data la bassa temperatura, anche se il liquido dovesse fuoriuscire accidentalmente dalla pentola non c’è il rischio che si bruci.
Basta insomma un panno umido per pulire questo tipo di piano senza più preoccuparsi di detergenti per lavare e smacchiare la superficie.
DESIGN: COME DIFFERENZIARSI
I piani a induzione si distinguono gli uni dagli altri innanzitutto sulla base dell’estetica che, tramite un abile gioco di alternanze di materiali ricercati come il vetro e l’acciaio, può differenziare fortemente un prodotto dall’altro.
Vi sono poi numerosi elementi che lasciano spazio alla creatività del designer; come ad esempio le dimensioni dell’intero piano cottura , e soprattutto la serigrafia, che caratterizza le zone cottura rendendole diverse in base alle forme e alla loro combinazione; in questo modo si interviene contemporaneamente anche sulle potenze che si adattano a ogni esigenza; le zone cottura, estensibili e modificabili, si adeguano infatti a pentole di ogni forma e dimensione. Vi sono poi le cornici, che possono essere sia estetiche; sia strutturali che danno un tocco in più o meno deciso al design del piano. Infine un dettaglio per nulla trascurabile è il colore del piano stesso, fino ad oggi quasi esclusivamente nero e lucido, ora disponibile anche in bianco. Ma qualche produttore afferma che sta già lavorando per potersi garantire l’esclusiva di piani a induzione dai colori più disparati, e accostabili a qualsiasi tipo di cucina, per evitare anche le più piccole increspature nell’armonia degli stili. Bisogna inoltre sottolineare il fatto che, se esposti, questi prodotti potrebbero essere venduti con molta più facilità, anche perchè sempre meglio trovarsi di fronte ad un elettrodomestico, piuttosto che ad una foto da catalogo, per argomento nel migliore dei modi.
Il Simbolismo nell’arte del Tappeto
Il Simbolismo nell’arte dei tappeti è uno degli argomenti più affascinanti e discussi; quante volte, attratti dal gioco dei colori e delle forme, abbiamo tentato di raffisare cissà quali messaggi provenienti da una realtà poco conosciuta e, che per questo ancor più ci coinvolge e ci stimola; un mondo di cose e di idee alle quali, nonostante tutto, siamo estranei ma verso le quali ci sentiamo naturalmente attratti.
Il tappeto per noi è uno dei tanti soggetti ornamentali, per gli orientali è un modo di vita, da quando lo tessono a quando lo usano, esso è il punto fermo per il nomade, il suo letto, il suo divano, la sua stella, la sua culla; per lo stanziale è l’arredamento principale della casa, il legame con la tradizione delle sue genti, la continuità con il suo passato. I simboli che l’artigiano, con arte vecchia di secoli, riannoda pazientemente, hanno perso il loro significato iniziale per assumere quello di testimonianza ancora viva delle tradizioni, di un passato che si rinnova e si tramanda. Questi simboli hanno radici lontane, e non sono nati per caso ed hanno subito nel corso dei secoli tutte le influenze ed i cambiamente,che scambi culturali, religiosi e commerciali poterono favorire. La loro decodificazione quindi può essere, tenuto conto di questi cambiamenti, oggetto di studio, ma non deve divenire un’ossessione. A volte motivi e segni ai quali si vorrebbe forzatamente dare un’interpretazione, altro non sono che “sviste d’autore”; è bene ricordare che l’artigiano non vuole mandare messaggi, ma solo ed esclusivamente le sue tradizioni, egli quindi si ispira ad esse e alla natura.
Tutto ciò vale per gran parte delle produzioni, soprattutto per quelle nomadiche e villiche, le eccezioni si riferiscono a quei tappeti generalmente persiani che venivano prodotti dai laboratori di corte. Nonostante queste premesse, ben difficilmente si riesce a sganciarsi dal desiderio di decrittare motivi e segni e, più forte diviene questo desiderio quando ci si trova di fronte a tappeti provenienti dall’area caucasica. Questa produzione infatti. è affascinate. non solo per il gioco cromatico ma per l’estrema stilizzazione dei simboli che, pur essendo abbastanza comuni in altre produzioni, quì assumono per la rigidità del disegno, l’elementarietà dei tratti, la geometricità (quasi un “guastarsi” dell’idea originaria – tanto da far parlase di “decadenza” da parte di alcuni studiosi) un aspetto del tutto nuovo e a volte inquietante, ma così “originale” in ogni eccezione del termine, che, se da una parte riafferma in modo erquivocabile i tratti tipici e le tradizioni dei popoli di questa regione – che conservano invariate le loro radici rustiche e primitive ma essenzialmente vitali – dall’altra riaccende i desideri di comprensione e di interpretazione di queste forme. Il tappeto Caucasico è, come già si è detto, un tappeto dall’assoluto rigore geometrico, il suo disegno è un gioco continuo di triangoli, esagoni, quadrati; tutte le forme sono riprodotte nella loro essenzialità senza alcuna trasgressione o mezzi termini; nel suo complesso si possono trovare accostate a simboli elementali e tribali altri più complessi ma in ogni caso riprodotti senza alcuna concessione allo svolazzo, al ricciolo, alla divagazione.
Oltre alle figure geometriche sopraccennate, altri sistemi sono ricorrenti in questa produzione: la stella ad otto punte dei Medi, quella a 6 punte dei maomettani, il gancio (per molti derivazione della svastica, …simbolo quest’ultimo del polo, attorno ad esso si effettua la rotazione del mondo…, svastica non come simbolo di movimento fine a se stesso, ma di un movimento di rotazione che si compie attorno ad un centro o ad un asse immobile). Nella produzione delle zone meridionali, si possono ritrovare anche figure di persone o animali, sempre molto stilizzate. Tra le raffigurazioni animali le più ricorrenti sono quelle del pavone (immortalità) e del gallo (nemico dei demoni, ha il compito di svegliare i credenti ed invitarli alle preghiere). Stilema assai utilizzato è il Boteh, nella produzione caucasica ha contorno rigido vagamente esagonale, la sua forma è simile ad un fico (questa è una delle interpretazioni, altri hanno avvisato una pigna, un pera, una mandorla) per taluni è la deformazione fantastica del cipresso nel quale si sasrebbe mutato Zoroastro dopo la sua morte.
Il Pavone, il Gallo, il Boteh sono tutti elementi sacri dello Zoroastrismo. Soffermiamoci ora all’aspetto più tecnico della produzione dei tappeti, la loro struttura. Nella stragrande maggioranza dei casi, viene utilizzato un telaio verticale: i fili dell’ordito (catene) sono disposti verticalmente, mentre la trama si inserisce orizzontalmente. Più usato dalle tribù nomadi, in quanto facile da racchiudere e trasportare durante i trasferimenti, è il telaio orizzontale, con esso si possono eseguire solo tappeti di piccolo formato. Dopo aver steso tutte le catene, vengono eseguite delle serie di nodi assicurati da due o più fili di ordito contigui; terminata ogni fila di nodi, si inserisce la trama che viene poi premuta mediante un pettine. Il nodo viene fatto con una matassa di lana che dopo ogni annodamento viene tagliata; questa recisione è molto rudimentale e lascia i capi del nodo ineguali; via via che il lavoro procede viene data una prima livellatura a forbice; a fine lavoro un esperto artigiano livella il tappeto in modo omogeneo. All’inizio del lavoro, generalmente viene lasciata una cimossa (4 o 5 cm di tessuto non annodato), altre volte si lasciano catene libere per un certo tratto al termine della lavorazione del tappeto, con esse si formeranno le frange. I materiali più usati per l’ordito e trama sono il cotone, la lana, la seta; in alcuni casi l’ordito è di cotone e la trama in lana, per quanto riguarda il tappeto Caucasico sia trama che ordito sono in lana salvo alcune rare eccezzioni. I nodi sono sempre eseguiti con lana, raramente è stato usato il cotone e solo per dare più vivacità al bianco.
Promozioni Sì ma con idee Nuove
“I rivenditori tirano le somme sull’argomento già affrontato con i produttori d’elettrodomestici e cucine. Pur ammettendo l’effettivo guadagno di tali attività. Un po’ stanchi, ricercano altri prodotti che possano nuovamente stupire il cliente.”
Negli ultimi due numeri della nostra rivista abbiamo cercato di capire, attraverso diversi punti di vista, prima quello dei produttori del bianco, poi quello dei cucinieri, quali fossero le opinioni più diffuse sulle promozioni dedicate agli elettrodomestici, che negli anni sono diventate sempre più una prassi e quasi una legge.
Le opinioni sul “regalo”; solitamente la lavastoviglie, si dividono tra chi sostiene che sia il mezzo più efficace per vendere più cucine ed elettrodomestici, e chi invece crede sia ormai un compromesso un po’ obsoleto. Inoltre da un lato i produttori di elettrodomestici definiscono le promozioni un aiuto a vendere le cucine, dall’altro i produttori di cucine, ribattono che simili operazioni sono uno dei pochi strumenti ancora in grado di difendere il proprio fatturato legato al bianco, che attualmente rischia di essere intaccato dalla concorrenza aggressiva di distributori – che hanno armi come la velocità e le reti corte – e Grande distribuzione. Ma vediamo più concretamente qual è il valore strategico che hanno dato alle promozioni i produttori del bianco e quelli di cucine, per scoprire l’opinione in merito dei negozianti.
INCENTIVO O SVILIMENTO?
Da parte dei protagonisti del bianco sono emerse opinioni differenti: se da un lato vi sono produttori che considerano le promozioni indispensabili per realizzare volumi e creare, o meglio consolidare, i loro rapporti con il partner cucinieri; dall’altro c’è chi continua a sostenere la tesi dello svilimento dei prodotti cui questo tipo di azione conduce. Nato come un metodo per cercare di alzare il tasso di penetrazione della lavastoviglie sul mercato del nostro Paese, la promozione, che vede questo elettrodomestico praticamente regalato al consumatore finale, non avrebbe più ragione d’essere, visto che oramai, secondo alcuni, quasi tutte le famiglie ne possiedono una, pur magari ammettendo di non utilizzarla spesso. D’altro canto è pur vero che rimane un ottimo incentivo per vendere il tris di elettrodomestici di uno stesso marchio – e quindi far girare più prodotti e aumentare fatturati – e soprattutto per spingere la vendita di una cucina. E in ogni caso il rischio di svilire negli anni questo prodotto è compensato appunto da una forte operazione di vendita che oltre a garantire comunque un buon tasso di penetrazione, conferma la stretta partnership che si viene a creare tra entrambi gli attori,produttori di elettrodomestici e cucinieri. A conti fatti, secondo le aziende del bianco, per ciò che riguarda le promozioni, sono quindi maggiori i pro (stabiliscono i rapporti di partnership, aumentano il tasso di penetrazione dei prodotti, garantiscono buoni volumi di vendita e soprattutto dinamicità al mercato).
che i contro (sviliscono i prodotti e non garantiscono margini corretti ai rivenditori).
OMAGGI TROPPO FACILI
Questo scenario di luci e ombre permane anche nelle opinioni dei cucinieri. Chi continua ad appoggiare questo tipo di attività promozionali lo fa soprattutto per avere un prezzo concorrenziale rispetto alla Grande distribuzione e poi per “difendere” il fatturato del 30% percento relativo agli elettrodomestici, che altrimenti andrebbe perduto. Secondo questi cucinieri dunque non servono tanto a vendere le cucine bensì gli elettrodomestici. Ci sono però molti produttori di cucine che invece ritengono le promozioni un’attività utile sul breve periodo ma non certo a lungo termine, a causa della forte dispersione di risorse e di energie che potrebbero altrimenti essere investite in altri campi molto più utili, come ad esempio la qualità del servizio o la forza del brand. In sostanza questo tipo di attività funziona sì, ma essendo negli anni divenuta troppo facile e diffusa, rischia oggi di essere controproducente.
UN CONSUMATORE PROTAGONISTA
Cosa pensano invece i rivenditori delle promozioni? Secondo questi operatori per orientarsi tra le dinamiche di un argomento
tanto delicato, bisogna indubbiamente partire dal consumatore, e da come quest ultimo vive le promozioni: si deve diventare un pò psicologi quando ci si trova di fronte ad un cliente e cercare di capire quali sono le sue esigenze, le sue abitudini e solo in un secondo momento avanzare domande sulle disponibilità economiche. Tutti sono concordi nell’affermare che, se un tempo il consumatore, più disposto a spendere, adocchiava un prodotto interessante in vetrina ed entrava nel negozio per acquistarlo, ora non è più così: il cliente va “attirato” presso il punto vendita, va seguito passo dopo passo e consigliato nelle scelte, va coccolato, ma soprattutto va stupito. E’ proprio su questo punto che nessun negoziante ha intenzione di soprassedere. Lo stupore che si legge sul viso di un cliente attratto da un prodotto sembra essere il punto di partenza e di arrivo di tutto il difficoltoso processo della vendita di una cucina.
CIRCOLO VIZIOSO
A questo punto però la lavastoviglie in regalo non basta più, per due motivi: è ormai un omaggio istituzionalizzato e non impressiona più i consumatori, e lo si può trovare praticamente ovunque. Sono infatti molti i negozianti che lamentano questi due problemi: da molti anni la lavastoviglie viene in effetti regalata da tutti, o quasi, i produttori di cucine, spesso indipendentemente dalla fascia di mercato di appartenenza, e proprio per questo motivo non si invoglia più il consumatore all’acquisto della cucina senza che vi sia una promozione in atto; se fino a qualche anno fa queste attività venivano segnalate solo in alcuni momenti dell’anno e solo pochi marchi di elettrodomestici aderivano all’iniziativa ora invece si può parlare di una consuetudine generalizzata. E come se questo non bastasse, il consumatore non deve neanche fare più la mossa di cercare il punto vendita più vicino che partecipa alla promozione, perchè non vi è negoziante che non abbia almeno un marchio di cucine che propone l’offerta. Anzi la maggior parte dei punti vendita dispone di più brand in promozione. Qualcuno dichiara di voler smettere con questo circolo vizioso che non permette di accumulare i margini adeguati, ma confessa d’altro canto di non potere, per forza di cose, fare da solo una scelta di questo genere perchè verrebbe immediatamente “tagliato fuori” dal giro e rischierebbe di compromettere troppe vendite di cucine. La proposta da parte di chi è stanco di queste attività, e le considera ormai inutili e poco significative, è quella di coalizzarsi, e al motto di “l’unione fa la forza”, chiedere ai produttori di elettrodomestici e di cucine di concentrare maggiormente le promozioni solo in un paio di occasioni l’anno.
UN VALORE POCO APPREZZATO
I rivenditori intervistati ricordano anche la poca stima che viene prestata al valore dell’elettrodomestico in regalo è fonte di numerose delusioni: quasi sempre sono prodotti che superano i 700-800 euro e non sono quindi elettrodomestici fascia entry level come quelli che vengono proposti alla Grande distribuzione del mobile. Nonostante però venga continuamente sottolineato il valore di questi prodotti da parte dei negozianti, i consumatori sono un pò restii a recepirlo, proprio per il fatto che viene loro omaggiato. I negozianti spiegano infatti come nella mente dell’utente si insinui un meccanismo per il quale “ciò che viene regalato è di poco valore, visto che nessuno regala niente per niente”. Invece non è affatto così. Si tratta di prodotti importanti, dotati di tecnologia avanzata, come ad esempio i programmi per il lavaggio dei cristalli o quello Bio o ancora Differenziato, e altre caratteristiche di grande valore.
UN ARMA IN PIU’
Naturalmente anche chi afferma di essere stanco di queste attività, per i motivi che abbiamo sopra citati, ammette comunque che le promozioni sono state, in passato in alcun caso lo sono tuttora, decisive per la vendita della cucina – come avevano già dichiarato i produttori di elettrodomestici – e per incrementare il fatturato dei punti vendita: proporre l’intero pacchetto di elettrodomestici, infatti, da una parte invoglia il consumatore all’acquisto del modello desiderato e, nei casi più fortunati, il risparmio sulla lavastoviglie, che viene regalata, si trasforma nella scelta di un piano di cottura più performante, di un forno dotato anche di ricette preimpostate o di un piano di lavoro dai materiali più pregiati. I rivenditori intervistati confermano quindi che, soprattutto per ciò che riguarda il primo impianto e per le giovani coppie o i single che decidono di andare a vivere da soli, è un buon risparmio che viene quasi sempre recepito positivamente.
I PIU’ INTRAPRENDENTI
In ogni caso, mentre i produttori di cucine e di elettrodomestici riflettono su quale prodotto potrebbe, in un futuro molto prossimo sostituire la lavastoviglie, alcuni rivenditori stanno già attuando politiche di promozioni diverse da quelle standard di cui abbiamo parlato fin ora. E qualcuno già ammette che funzionano. Si tratta infatti di tornare a stupire il cliente e proporre quindi prodotti di valore, oggetti del desiderio, che conferiscono un’idea di lusso come ad esempio cantinette, macchine per il caffé o piccoli elettrodomestici, come i robot da cucina di alta gamma, che magari un consumatore non acquisterebbe. Più nel dettaglio si è cercato di fidelizzare i clienti attraverso omaggi “inattesi” qualcuno ha provato a sottoporre all’attenzione del consumatore macchine che preparano la pasta e pane, oppure gelaterie, frullatori o ancora macchina caffé, tritarifiuti e per i più audaci, le proposte, come già accennato, hanno visto protagonisti veri e propri elettrodomestici come forni a microonde, macchine da caffé o cantine per la conservazione del vino. Questi intrepidi rivenditori sono molto soddisfatti del riscontro avuto dagli innovativi omaggi proposti in fase di vendita e confermano che hanno intenzione di continuare su tale strada, perchè convinti che sia l’unico modo per sorprendere e impressionare il consumatore. I rivenditori, anche i più piccoli. hanno dunque già trovato delle valide alternative per sviluppare il business.
Negozianti protagonisti nel dialogo
“L’Italia è un caso unico al mondo:nessun altro Paese può vantare livelli di eccellenza così alti nel campo della produzione di arredamento è un’immagine prestigiosa come la nostra.Eppure non siamo capaci di vendere bene”.Questa ammissione molto forte è quella di Paolo Boffi,presidente di Assarredo,ma anche veritiera.
La ragione che spinge Assarredo a simili affermazioni è semplice e sotto gli occhi di tutti:sono finiti i tempi in cui i consumatori entravano spontaneamente nei negozi:ora bisogna saperli non solo attirare ma anche distoglierli dalle offerte dei concorrenti,diretti e indiretti.
Assarredo intende studiare a fondo il problema per presentare nuove soluzioni.
Ciò è molto importante.Innanzitutto,è forse il segno premonitore dell’addio a una visione meramente individualistica del business,caratteristica che da sempre contraddistingue sia l’industria che la distribuzione del mobile italiano.In più, se da un lato l’aiuto e la collaborazione con l’industria sono fondamentali,dall’altro non si può negare che è innanzitutto il rivenditore cosa è opportuno per il suo negozio.Occorre perciò che la distribuzione acquisisca sempre più capacità di trovare strade adeguate alle proprie caratteristiche.E perchè ciò accada,il dialogo tra negozianti può veramente rappresentare un confronto basilare in materie sia spicciole sia fondamentali.Perciò ben vengano l’apertura e il dialogo tra trade e industria,ma anche tra rivenditori e rivenditori,perchè con l’apporto di entrambe si potrà interpretare e affrontare correttamente il mercato.Anzi c’è da pensare che il punto di vista del trade sia fondamentale,per la lunga esperienza che ha nel rapporto diretto con il cliente finale.
Un campionario del XIX secolo
Questi oggetti nati sia per scopi commerciali che per scopi lucidi costituenti oggi un divertisment che suscita l’ammirazione e la ricerca da parte dei collezionisti. La loro riscoperta si può collegare alla generale rivalutazione a cui sono stata <<assoggettati>> in questi ultimi anni tutti gli oggetti che fanno parte della cosiddetta <<vita quotidiana>>, dagli abiti, ai giocattoli, ai divertisment. Eppure alle spalle dei minimobili vi è una profonda storia sociale che merita di essere analizzata con maggiore attenzione: da un lato essi furono creati da attenti artigianati che, in un epoca (a partire dal seicento) in cui non era ancora conosciuto alcun mezzo di riproduzione ad alta definizione, quale fu poi la fotografia, li usarono come tramite tra se e l’acquirente. Infatti per impressionare il ricco acquirente non erano certo sufficienti delle stampe, per quanto perfette; tutt’ altra impressione dovevano suscitare su di lui la presentazione di un <<campionario>> costituito da minimobili; con essi esso poteva immediatamente vedere dinnanzi a se l’effetto che il nuovo acquisto avrebbe fatto, in tutte le sue componenti tridimensionali. Ma accanto a quest’ aspetto prettamente commerciale se ne deve evidenziare un altro ludico che s’intreccia profondamente con il primo.
Quasi contemporaneamente al diffondersi dei minimobili si assistette all’irraggiamento sociale della bambola. Essa conosciuta fin dall’antichità (si veda a proposito la recente mostra milanese in cui, grazie al contributo di uno sponsor privato, è stato possibile restaurare una bambola d’avorio d’epoca romana), ma solo nel seicento essa perde quella componente di divisione sociale che aveva mantenuto per tutto l’antichità ed il Rinascimento (da un lato la bambola per le classi agiate vestita di pizzi ed abiti di seta e dall’altro la bambola delle classi povere) per divenire un oggetto che, grazie anche alla maggiore diffusione che la neonata borghesia le consente, un oggetto diffuso in tutte le classi sociali. La bambola già durante il Rinascimento aveva subito, grazie al generale raffinarsi del gusto, una elevazione: l’uso ricercato che di esse veniva fatto ci è tramandato dai conti delle corti che, soprattutto in Francia, presentavano delle spese assai rilevanti per l’invio di bambole di lusso. Dalla produzione artigiana e casalinga si passò assai presto a gruppi di artigiani che, a partire dai secoli XVII° e XVIII°, si dedicarono esclusivamente alla produzione di bambole. Già a partire dal Settecento esse iniziarono ad avere le loro casette, miracoli di finezza e di precisione tecnica; esse furono particolarmente frequenti nei paesi nordici, ove queste costruzioni, animate da alcuni personaggi, facevano riscontro alle composizioni dei nostri presepi. Dinnanzi a questi oggetti proviamo la medesima tenerezza che proviamo nel vedere una vetrina di abiti per bambini; un misto d’ammirazione per la perfezione con cui sono riprodotti in tutti i loro particolari.
I bagni di rimini – architetture balneari
Esiste anche nell’architettura una “architettura minore”?Certamente si, anche se finora essa non è stata studiata con sufficiente attenzione perché, troppo presi ad analizzare le “grandi opere” architettoniche, ci si è dimenticati, se non volontariamente trascurato, di studiarla. Solo da poco si è iniziata questa necessaria opera di approfondimento, riconoscendo in essa una vivacità ed una capacità d’adattarsi al veloce mutare delle mode estetiche, velocità che non è possibile ritrovare nelle architetture in muratura a causa delle lunghezze necessarie per la loro realizzazione; quindi, riprendendo un parallelo già attuato tra pittura e scultura, se noi cerchiamo i primi vagiti di una nuova corrente artistica dobbiamo ricercarli nella pittura e non nella scultura che richiede maggiore tempo per la realizzazione, così se vogliamo trovare nell’architettura il passaggio di una moda effimera non dobbiamo rivolgere le nostre ricerche agli edifici realizzati in muratura, ma verso quelle costruzioni che furono realizzate in materiali più malleabili e di più veloce montaggio. Se poi vogliamo cercare una collocazione funzionale di questi edifici effimeri no dobbiamo ricercare il loro uso tra edifici sociali o commerciali, ma verso quegli edifici utilizzati per le esposizioni o per le fiere, cioè verso quegli “edifici” che avevano una vita di breve durata. Ma veniamo ora ad analizzare il soggetto della nostra ricerca, le “architetture balneari”. Dobbiamo ammettere che non è senza difficoltà che possiamo definire come un bene culturale gli arredi balneari. Nel momento stesso in cui pensiamo ad essi ci ritornano alla mente le spoglie ed essenziali cabine, tanto spoglie da sfiorare il francescanesimo. Non ci saremmo mai aspettati che un giorno esse avrebbero potuto divenire il soggetto di una ricerca. L’occasione di approfondire la loro genesi e sviluppo storico di questa “architettura balneare” ci è stato offerto da un interessante mostra fotografica tenutasi a Rimini nei mesi scorsi. In questa mostra “Premiato stabilimento fotografico Contessi, 1859-
L’impianto della fotografia è semplice: la scena è pulita, spogliata da ogni elemento di quotidianità, dominata dal soggetto a tutto campo; in conclusione la fotografia dei Contessi assume nella prima edizione un carattere “alinariano”, priva cioè di ogni interesse che non sia puramente documentario. Solo a partire dalla terza edizione, del 1892, la componente documentaria si allargherà fino ad includere alcune scene di vita di spiaggia. Ma veniamo ora allo studio dell’architettura di questa Rimini che inizia ora a candidarsi come la capitale della balneazione nazionale. L’aspetto che immediatamente emerge è una adesione dell’architettura alla corrente romantica dell’architettura ed al pittoresco. Abbiamo così la disavventura di vedere alcuni villini con torri merlate come sfondo alla foto “Villini e camerini sul lido”, sfondo che se si adatta perfettamente alla vena neo-gotica dell’architettura romantica, produce un vero iato tra la scena di mare in primo piano ed il fondale, iato che non può essere visto da uno spettatore contemporaneo che come un discutibile ibridismo. Ma la foto che maggiore forza ci rimanda ad un epoca ormai tramontata è la bellissima foto “Piattaforma e camerini sul mare”; in essa l’ibridismo raggiunge il massimo livello con la capanna in vago stile “orientaleggiante” che trionfa al centro della costruzione. Nel vederla non si può fare a meno di ripensare alle scene finali di “morte a Venezia”. Un altro punto in cui emerge la componente pittoresca di questa architettura è la “Capanna Svizzera” un “Restaurant” che come affermano L. e C. Tonini, autori della Guida per il forestiere, edita a Rimini nel 1893, ”è adibita ad uso di trattoria, ove a prezzi modici ci si ristora con cibi e vini eletti, seduto a mense disposte in vicinanza del lido”. Si conclude qui, con quest’ ultima incongruenza architettonica, la nostra gita nella Rimini dell’Ottocento, quando già si iniziavano a manifestarsi quelle tendenze che l’avrebbero trasformata in un orrendo ammasso di cemento; queste sono le ultime testimonianze di una presenza artistica nella selvaggia lottizzazione di questa area adriatica.
cucinare l’arte
Nell’Ottocento si diceva che “a tavola in Italia, si potevano cogliere e vendere i panorami di più intesa umanità”; nel tempo si sono perse le tradizioni legate alla tavola e all’impegno di così sontuose mense. L e case “come regge” hanno lasciato il posto ad abitazioni unifamiliari e gli ospiti illustri e letterati “non ci tramandano più le descrizioni di fantasiose ma ingombranti cerimonie”. La vita del tempo passato e la famiglia patriarcale non sono più “custodi di virtù ancestrali che formano la nobiltà di una razza”, i pranzi non vengono intervallati da canti e balli e gli uomini non assaporano “nei fumoir del dopocena” i terapeutici sigari. A noi sono giunte a testimonianza sovrabbondanti descrizioni: trattati gastronomici, galatei e l’incisività dell’opera d’arte secondo regole che da sempre sono state il verbo dell’epoca. L’artista è stato l’attento descrittore dell’atto naturale del vivere e dello spazio in cui ogni azione è stata fermata. Il cibo e l’atto del nutrirsi nell’allegoria del dipinto è stato trascritto, fissato sulla tela. Testimonianze mute in cui nature morte ci hanno lasciato nella memoria il solco del loro sapore, del loro colore. Scene, rappresentazioni, cerimonie sono state completate con primi piani in cui le raffigurazioni di frutta, di pesci e molluschi o gli utensili da cucina diventano protagonisti. Le composizioni metafisiche di un Arcimboldi (in pieno Cinquecento) possono suggerire l’idea di un cantiniere o di un cuoco con il pretesto di ritrarre gli oggetti più svariati. I quadri degli impressionisti nelle colazioni all’aperto vivono nel chiarore di tenere pennellate i riflessi di vita degli intellettuali francesi di fine ottocento, il cibo tra ballo e un bicchiere di vino appoggiato al tavolo in campagna come “alla locanda di Mère Antony” di Renoir. Il futurismo, movimento poetico “’avanguardia” riusciva a stupire, nel primo Novecento, organizzando pranzi “come spettacolo” improntati di teatralità, basati sull’invenzione scenica e sulla costruzione estetica. E nel tempo l’arte è letta come filosofia, come recupero di una conoscenza del passato che si concretizza e diviene presente. E’ l’occasione per una rivisitazione, una riflessione critica; è lo spunto per identificarsi in un gioco speculare di rapporto naturale (con) nell’arte. Negli anni Sessanta e Settanta con l’avvento dei mass-media la rivoluzione del gusto fissa angosciosamente la rappresentazione del reale. Le prime performances promuovono azioni di disturbo e il gesto dilatato e ripetitivo viene letto come elemento provocatorio nella storia della nostra esistenza; il primo “Vietnam Party” avviene all’accademia di Vienna, ideato da Günster Brus e Otto Muehl apre la strada alla Body Art. L’investigazione sull’uso del corpo di Gina Pane è l’esempio per un ossessivo viaggio nella nostra esistenza. Christian Boltansky nell’inquietante ricerca della realtà vissuta legge nel passato l’esigenza di restituire al corpo l’assente: un lavoro sulla memoria, un rapporto, una ricerca proustiana. Michele Zaza, nei “due protagonisti della felicità e del dovere nella ripetizione omologata” coglie gesti mimati dal quotidiano attraverso la ripresa televisiva, come copia conforme al vissuto. Herman Nitsh, “nel teatro delle orge e dei misteri” riferendosi alla teatralità greca, distribuisce vino, liquidi organici, zucchero; coinvolge direttamente gli spettatori, sollecita tutti i sensi; rapporta l’azione al sacrificio. Claes Oldemburg prepara pranzi e le bistecche consumate sono il soggetto dell’opera d’arte: in questi movimenti la natura (l’arte?) rivive la sua precarietà. Una grande cena ideata da Pierre Restany viene imbandita al bar Motta di Milano, partecipano artisti e un grande simbolo fallo brucia nella sottostante piazza del Duomo. Tutte queste opere d’arte vengono vissute, consumate come le esperienze quotidiane, riportano alla memoria gli aspetti più remoti della coscienza dell’individuo. L’artista apre nell’elementare grammatica mimica dei gesti nell’esercizio scenico, una finestra sul reale. Un teatro povero in cui l’immobilità degli oggetti, della tavola e il consumo del cibo divengono ossessiva interpretazione.
Scenografia Barocca
Per poter affermare che una scenografia è barocca non è sufficiente osservare i singoli elementi che la costituiscono, riconoscendoli come caratteristici dell’arte aulica del Seicento, è necessario piuttosto prendere in considerazione una serie di fattori rilevanti solo da uno sguardo d’insieme ai vari “quadri” che costituiscono lo sfondo di un’intera opera.
Ma questi fattori, all’interno dello stesso periodo barocco, sono mutati, e nella stessa proporzione sono mutate le scenografie. Intendendo delineare brevemente una direttiva di sviluppo della composizione scenografica barocca, fissando le sue fasi principali, cominceremo col notare quanto sereno e statico equilibrio ci fosse nell’immagine scenica degli autori del primo ‘600. Ogni parte di questa gode di una relativa autonomia, lo possiamo qui vedere nell’intermedio I del “Giudizio di Paride” portato ad esempio, dove sentiamo ancora la pregnante presenza del carattere rinascimentale: la profondità spaziale è limitata e tutto s’inspira ad una moderata fantasia. Poco più avanti nel tempo, nei bozzetti di Alfonso Rivarola detto il Chenda, cominciamo a notare l’interesse per il gioco prospettico che accentua la tensione dello sguardo, finché nelle scene di Jacopo Torelli l’illusione dell’infinito vince sulla bidimensionalità del fondale, per ripetersi in soluzioni sempre più ossessive ed esasperate come avviene nelle incisioni di Marcantonio Chiarini.
Lo stesso infinito che inspira e suggestiona i pittori del Seicento trionfa anche in teatro. Come sempre la giustificazione di ogni evoluzione, sia questa del gusto artistico o di qualsiasi altro genere, va ricercata negli eventi che condizionano nel loro complesso lo svolgimento della Storia in cui l’uomo vive, e così anche in questo caso spaziando oltre il circoscritto confine del palcoscenico troviamo il senso di quello che vi accade. Dalla dignitosa posizione centrale dell’uomo rinascimentale, attorno al quale gravità l’universo, dallo statico equilibrio di ogni relatività riportata sempre all’uomo fulcro della creazione divina, si passa alla scoperta scioccante dell’autentica relazione fra uomo e spazio non finito, alla rivelazione di Galileo sul moto della Terra, non più centro dell’universo, ma soltanto parte infinitesima di esso, nel quale è inserita grazie ad una “celeste armonia”.
Le scoperte del secolo scuotono il pensiero umano, suscitando l’urgente revisione di tutti i sistemi.
Ma l’uomo non si perde nell’angoscia della sua smarrita dimensione, anzi è inorgoglito dalle scoperte che ora gli hanno permesso di accedere alla “verità”, e dal precedente dualismo trascendentale si passa alla nuova concezione dell’immanenza religiosa. Verifichiamo così nelle opere degli artisti che l’armonia dell’unità compositiva si è perduta, anzi la troviamo rafforzata: non c’è parte del quadro, nel nostro caso diciamo dell’incisione, che non sia legata al rapporto delle altre parti di questa. “L’autore s’accosta al soggetto con una visione sintetica che finisce per sommergere ogni particolare isolato”. Vediamo predominare una sola direzione prospettica, come nei quadri di pittura predomina una sola diagonale, o un solo colore, nella statua una sola curva, e nel canto una sola voce. Perché poi lo spettatore doveva trovarsi davanti ad uno spazio che gli fuggiva nella sua totalità pensiamo che si debba attribuire al fatto per cui la scena doveva essere concepita per il punto di vista preferenziale del “signore”, che sedeva al centro della sala. Il movimento della scena barocca non consisteva tanto nell’impianto scenico, ma più che altro nel gioco delle macchine che si avvicendavano sul palco, movimentando materialmente lo spazio scenico, e inoltre va tenuto presente che ogni quadro s’avvicendava velocemente all’altro.
Al contrario che nella pittura, dove il movimento si esaurisce nella composizione iconografica, nella scenografia barocca il movimento investe tutto lo spettacolo, non ci devono quindi trarre in inganno le monotone iterazioni delle incisioni, dalle quali non possiamo vedere solo l’impianto scenico. Il punto fermo posto da Ferdinando Bibiena alla fuga prospettica centrale ci risulta coincidere col periodo di fioritura dei teatri pubblici italiani. Il suo allestimento per l’opera “Didio Giuliano”, in cui compaiono più scene con prospettiva “ad angolo”, fu realizzato nel 1687 per il Teatro Ducale di Piacenza. Il “Nerone fatto Cesare” stenografato da Marcantonio Chiarini in cui compare ancora una scena “ad angolo” è per il Teatro Malvezzi di Bologna, qui dato nel
I punti di vista si sono moltiplicati portando la composizione scenica a tendere all’ uniformità. Nello stesso tempo lo scenografo non è più interessato a creare l’illusione di uno sconvolgente spazio infinito, ma si dedica piuttosto alla riproduzione di spazi “possibili”, che non appaiono come luoghi appositamente costruiti in funzione di una convenzione teatrale tacitamente accettata, ma vogliono apparire luoghi naturali, davanti ai quali: “per caso” lo spettatore si trova e si ferma ad osservare “l’azione”. Non troviamo più in queste composizioni la presenza dell’angoscia suscitata dalla tensione prospettica; la dimensione reale, la natura terrena, diventa l’oggetto della scenografia fino alla metà del Settecento. La realtà dello spazio scenico si spinge sempre più verso lo spettatore, quasi intendesse coinvolgerlo nella sua dimensione, convincendolo della propria verità, fino ad appiattirsi sul traguardo della ribalta. La scenografia è così giunta attraverso una graduale conquista dello spazio scenico alla soluzione opposta dalla quale era suggestivamente partita nel Seicento. E’ il movimento questo in cui il pensiero illuminista riveste di nuove teorie ogni concezione che appartiene alla passato, riportando l’uomo al raziocinio della sua ragione vietandogli d’indulgersi in convenzioni che lo allontanano dalla natura; la fioritura dello stile neoclassico chiudeva così una parabola di trecento anni di arte.
IL TEATRO DELLE MEMORIE
Luci di sbieco e soffi d’aria dalle aperture,insieme alla luce.
Polvere non troppo e legni, legni foggiati, intagliati, decorati, intarsiati.
Legni disposti a terra, sulle loro quattro gambe, con braccioli e schienali, Sedili.
Platea da sempre necessariamente deserta,platea spettacolo a se stessa.
Legni appesi a decine, a centinaia, sotto il soffitto, a invisibili canapi.
Cartoni,cartoni sagomati,liste e liste appese lungo le pareti.
Archivio all’apparenza inesauribile (non c’è interesse a contare) di sedili custoditi in ogni luogo,fabbricati in ogni tempo,tutti minuziosamente rifatti,identici ai loro prototipi.
Identici tra molti sedili tra quanti,peregrinando per musei e palazzi e regge europee,hanno destato il nostro desiderio di stanchi visitatori,subito rimosso da un risvegliato rispetto per la storia,su cui residui materiali è poco dignitoso,per noi,suoi figli,poggiare le membra.
Biblioteca di modi di sedere ormai passati eppure ancora desiderati,dopo ore trascorse su un sedile riscaldato e regolabile di un automobile venuta da nord.
Biblioteca di modi di sedere che chi,in decenni,è pssato dalla storia allo sgabello del bar,ama ripercorrere.
In questa biblioteca di legni,un piccolo libro,dizionario di carta stampata dalle sue poche parole.
COPIA “Trascrizione di una pittura o stampa”,ma anche”disegno,pittura,scultura ricavata da un esemplare che lo riproduce più o meno esattamente”.
Così recitano altri dizionari e,tra i sinonimi,aggiungono:”contraffazione”.Ma contraffazione è in rapporto col commercio che di un oggetto si fa,vantandolo come originale:con l’oggetto di questo commercio rapporto non c’è,la copia non è contraffatta.”Copia” e sempre relazionato ad un lavoro manuale:una trascrizione,un disegno,un oggetto fabbricato o scolpito.
Con l’eccezione di un termine improprio,”fotocopia”,copia meccanica per la quale sarebbe opportuno usare il termine “riproduzione”.Copia,nell’uso,diviene un pò spregiativo:sinonimo di pigrizia mentale,di poca originalità.
Ciò non avviene con la scrittura,bene copiabile per eccellenza perchè,come ha notato Foucault,da secoli ormai il suo contenuto è considerato indifferente alla forma,al gesto,al connotato del segno che lo rappresenta.
Copiare scritture è considerato un atto normale,ascriviamo meriti enormi agli amanuensi delle antiche abbazie.
Copiare è considerato un atto normale perchè,indifferente il concetto alla forma della scrittura,questa copia richiede la normale abilità di uno scolaro elementare.
Quando,dunque,”copia”contiene una colorazione negativa,è perchè cerchiamo l’autentico fuori dal nostro pensiero,dentro l’oggetto.
E qui scopriamo come dieci anni di concettualismo siano passati invano per il nostro senso comune.
DIMA Non sitrova sui dizionari comuni.Termine tecnico,artigiano,escluso da una certa lingua crociana.
Dima:tramite materiale tra un progetto e un oggetto o tra due oggetti,l’uno esistentre,l’altro da riprodurre identico a questo.
La dima si usa quando la misura non c’è,non serve o fallisce.
Quando il materiale od il gesto che gli ha dato forma sfuggono alla scansione grossolana del metro.
Il rapporto della dima all’oggetto,dunque,non è razionale ma materiale e sensibile,la dima,radicalmente non appartiene all’industria ma all’artigianato.
Nel nostro caso la dima è il risultato e lo strumento di un rilievo,di un lavoro minuzioso e paziente sopra l’oggetto ed è la garante della copia fedele.
IMITAZIONE:Non è il caso nostro.Imitazikone implica una specie di grottesco sforzo creativo,inarrivabile restando il modello.
L’imitatore tenta di ricorrere coi suoi poveri e grandi mezzi,con deformazioni volute o distacchi non controllati,il progetto,non di restituire,identico,l’oggetto
L’imitazione è un inutile ricreare là dove meglio sarebbe “copiare”spesso è la scorciatoia per una modesta abilità.
Oppure appartiene alla satira.
Posato il libro,luci di sbieco,ancora,e soffi d’aria con loro.
Ognuno di questi oggetti,,di questi sedili,ha soddisfatto,in un uomo,il desiderio opposto,e simmetrico,a quello dell’ “autentico” ed “unico”.
Desideri di cui la nostra cultura,malgrado proprio per essi spesso torni a ripetersi,ha estremo pudore.
Di essi non hanno, invece,pudore quanti non hanno una “Storia” davanti.
Pensando questi sedili in legno come le copie di quelli autentici dai quali derivano,attraversa lo sguardo l’immagine di una maniacale scena teatrale.
Non più dunque l’immagine della platea come palcoscenico e surreale macchina teatrale,minuziosamente tesa a restituirci la scena come mondo reale dei suoi personaggi.
La cui splendida essenza ci dona luci di sbieco,e soffi d’aria,e silenzio:malgrado secoli di chiacchera mormorante sopra queste e quelle sedie.
Silenzio:perchè questo non è il mondo,siamo seduti a teatro.
Il restauratore di Dipinti
Prima di parlare del ruolo che il restauratore occupa nel nostro contesto sociale è bene fare un pò di luce su questa professione che, il più delle volte, vive su concezioni errate o superate ormai da decenni.
E’ da annullare innanzi tutto la convinzione che il restauratore si muova per tentativi nell’ambito di credenze empiriche che permettono l’uso di materiali alquanto dubbi quali: la cipolla o l’alcool incendiato nella pulitura, oppure l’uso di olio d’oliva per ridare vivacità e leggibilità ad un dipinto oramai sporco; inoltre è necessario sfatare quell’alone di mistero e di mito che porta a considerare i restauratori degli stregoni, delle persone che compiono miracoli, convinzione che, alcune volte, getta il restauro nel discredito e nella sfiducia.
Il restauratore non è un mago ma semplicemente un tecnico, “il medico dei quadri”, che non pronuncia incantesimi ma che esegue determinate operazioni legate tra loro da nessi logici. Se ripercorriamo brevemente le vicende storiche di questa professione possiamo vedere come il restauro abbia sempre camminato accanto all’arte assecondando gusti, usanze e concezioni della varie epoche e culture.
Nel Rinascimento, quando incisioni e copie dei dipinti ritenuti più importanti (copie eseguite anche dall’autore stesso), assicuravano sia la diffusione e la conoscenza delle opere, sia la loro trasmissione al futuro, il restauratore non esisteva: erano i pittori stessi che restauravano i dipinti. Il restauro poi consisteva nel riprendere l’opera e apportargli delle modifiche e dal punto di vista pittorico, anche solo dopo pochi anni dall’esecuzione.
Le motivazioni che portavano a questi cambiamenti erano svariate: le opere di pubblico dominio erano legate al susseguirsi di avvenimenti politici, storici, culturali; le opere private erano soggette al gusto del proprietario, il quale poteva preferire un paesaggio al posto dello sfondo neutro o il vestito azzurro invece di quello rosso. Esempio tipico del riadattamento delle immagini alle esigenze della moda e del culto ci viene fornito dalla Controriforma quando la maggior parte dei pittori che accettavano di 2resturare” i dipinti di altri artisti erano impegnati in un esame sistematico delle immagini e della loro epurazione quando queste non fossero pienamente ortodosse e convenienti (nelle Fiandre si era arrivati addirittura a coprire i piedi nudi della Madonna).
Sempre nei dipinti sacri un aspetto abbastanza usuale era quello di apportare correzioni ispirate al proposito di rendere più efficace l’intento devozionale dell’immagine con l’aggiunta di invocazioni o “preci”, di decorazioni sacre come una corona del Rosario o i simboli del martirio. Per quanto riguarda i ritratti spesso capitava che, essendo deceduto il personaggio ritratto, i parenti facevano “listare a lutto” la sua raffigurazione (questo continua ad avvenire anche più avanti nel ‘700 e nell’800); la fase di pulitura e capitato varie volte di trovare al posto di un nastrino nero al collo una collana di perle, sotto uno scialle di pizzo nero o dei nastri viola nei capelli un manto rosso o guarnizioni preziose.
Nel ‘600 il restauro diventa una professione vera e propria volta alla salvaguardia del patrimonio artistico: si cerca innanzi tutto di distinguere l’attività e la funzione del restauratore da quella del pittore o artista. Si apre così tutta una problematica su come conservare un dipinto o su come aggiustarlo se questi risulti danneggiato. Fioriscono i manuali che portano ricette per la preparazione di colle, collette, stucchi, solventi per pulitura e persino di vernici. Iniziano le dispute: c’è chi sostiene il restauro in quanto rifacimento totale delle parti mancanti di un oggetto sia esso dipinto, scultura o architettura.
“…rifare ad una cosa le parti guaste e quelle che mancano per vecchiezza, rabbrecciare, rinnovare…” afferma il Bellori, il quale salta oltre la capacità interpretativa del restauratore intesa come facoltà di sapersi impossessare dello stile di un altro artista. Guido Reni sostiene invece che non si può intervenire su di un opera modificandola, se non a breve distanza dalla sua esecuzione; e così pure Baldinucci esclude la possibilità di reintegrazione poiché i colori e i materiali in genere sono soggetti a processi di alterazione. Vasari invece si delinea come primo sostenitore del restauro conservativo, di quel restauro cioè che porta ad intervenire sulle condizioni ambientali nelle quali è posta l’opera, affinché ne permettano una buona conservazione.
Il ‘700 poi, offre nuovi elementi alla polemica: si fa avanti una nuova visione dell’arte, la personalità artistica, e di conseguenza l’originale diventa irripetibile. Inoltre l’oggetto artistico non viene più considerato un fattore isolato, ma si comincia a riflettere sulla sua ambientazione, sulle risonanze stilistiche, sul processo di riassimilazione: le opere che fanno parte di collezioni private o di gallerie principesche subiscono durante il restauro gravi alterazioni, specie per quanto riguarda le dimensioni. Numerosi sono i tagli o gli ingrandimenti sui dipinti; spesso la forma viene modificata totalmente: da quadrata diviene tonda, da rettangolare diviene ovale (sagoma considerata all’epoca più gradevole). Col diffondere della pratica del collezionismo il restauro vero e proprio viene affiancato dal “restauro commerciale”.
E’ così definito quel tipo di restauro che si identifica spesso con l’eseguire sui dipinti tutti quei lavori di pulitura, ridipittura, falsificazione, invecchiamento artificiale, legati al commercio dei quadri antichi. Si fa un grande uso di vernici giallastre e anche più scure, di patinature di vario tipo, per rendere il dipinto più vecchio di quanto effettivamente è. Le collezioni di dipinti antichi hanno cosi modo di arricchirsi con opere trafugate da chiese e musei, abilmente modificate in modo da esser rese irriconoscibili e facilmente esportabili.
Solo da qualche decennio, da quando cioè si è cercato di affrontare con maggior coscienza l’enorme problema del patrimonio artistico e della sua conservazione, il restauro è stato affiancato da altre discipline ausiliarie quali: la critica d’arte, la scienza, la medicina. Con questo non si è voluto accantonare il parere e l’operato del restauratore, il quale resta sempre l’operatore primo, la persona che più direttamente entra in contatto con l’opera e con la materia. E’ il restauratore che deve possedere una dose di sensibilità artistico-coscienziale superiore a qualsiasi altro operatore: solamente tramite tale sensibilità egli riuscirà ad agire sulla materia malata in consonanza alle sue caratteristiche e alle sue richieste, riportando il dipinto alla sua completa “unità logica” di opera figurativamente omogenea e tecnicamente eterogenea. Lo storico, il radiologo o il chimico daranno il loro apporto solo quando il restauratore lo riterrà opportuno, quando cioè la prima e sommaria analisi delle caratteristiche stilistiche, materiche, visivo-sensoriali del dipinto, darà risultati dubbi e ambigui.
Si procederà allora, come avviene in medicina, ad una rigorosa analisi dei sintomi e delle cause del manifestarsi di una malattia, quindi alla definizione della natura del male e alla scelta di questa o quella terapia. I mezzi usati per fare analisi fanno parte di quel nuovo aspetto del restauro che va sotto il nome di “Diagnostica Artistica”, la quale comprende: radiografia, riflettografia monitorizzata, indagine all’ultravioletto. La diagnostica trasforma l’oramai sorpassata immagine soggettiva dell’opera, legata all’esperienza dell’esecutore e ai limiti dell’apparecchiatura impiegata, in una documentazione obbiettiva che garantisce al restauratore una percentuale di rischio molto inferiore è gli offre una maggiore chiarezza mentale ed esecutiva. Questo per quanto riguarda il restauro preventivo, conservativo è soprattutto per la pulitura. Per il restauro pittorico il discorso è diverso. Come abbiamo visto il restauro è sempre stato considerato innanzi tutto un fattore estetico e quindi si è sempre cercato di “abbellire” con ridipitture l’opera a seconda del gusto dell’epoca, oggi giorno invece siamo portati a considerare il dipinto anche e soprattutto dal punto di vista storico.
Il restauro pittorico quindi deve mirare al ristabilimento dell’unità potenziale dell’opera d0’arte, purché ciò sia possibile senza commettere un falso storico o un falso esoterico. Ne deriva che l’integrazione dovrà essere facilmente riconoscibile e, per non infrangere l’unità che si tende a ricostruire, sarà invisibile alla distanza da cui si guarda l’opera, ma subito individuabile da vicino; in tal modo si avrà l’esatta conoscenza di quale sia l’originale.
Un ultimo punto fondamentale che individua la nuova “teoria” del restauro, è la preoccupazione che ogni intervento di ripristino non debba rendere impossibili gli eventuali interventi futuri, anzi debba facilitarli.
CHARLES RENNIE MACKINTOSCH
L’opera di Charles Renne Mackintosh (1868-1928) può essere considerata come un esempio anomalo nella storia dell’architettura moderna.
Nato a Glasgow, in Scozia, riuscì, da quest’ambiente isolato, insieme ad un gruppo d’artisti denominato la “Scuola di Glasgow”, ad inserirsi nel vivo del dibattito dell’avanguardia artistica europea. Il primo successo del gruppo fu la mostra di Arts and Crafts del 1896 a Londra Mackintosh, il più dotato tra tutti, era però già stato assunto nel 1890 come disegnatore nello studio d’architettura Honeyman & Keppie di cui divenne socio quattro anni dopo e dove lavorò fino al 1913. I primi incarichi quale progettista indipendente gli furono affidati a partire dal 1897. Tra le sue opere maggiori si possono annoverare:
la “Hill House” a Helensburgh (1902-1903) che è uno dei principali documenti del gusto di Mackintosh nell’arredamento domestico, essendo stati conservati la maggior parte dei suoi suppellettili;la sistemazione della casa di Demgate, Northampotn (1916-1917); e gli allestimenti delle case da tè a Glasgow per conto di Miss Cranstone. Oltre che di architettura egli si interessò molto di design, anzi fu più conosciuto in Europa per questa sua attività.
Nel 1900 espose i suoi mobili alla Secessione di Vienna ottenendo un notevole successo, seguito subito da quello ottenuto all’Esposizione Internazionale di Torino del 1901. Nello stesso anno l’editore tedesco A.Koch organizzò un concorso per il progetto di una “Casa per amatore d’arte”, che fu vinto da B.Scott, ma i disegni di Mackintosch, pubblicati nel 1902, furono i più discussi e commentati. In tutte le sue opere egli interpretò in modo nuovo e personale il repertorio dell’ “Art Nouveau”; cercò infatti un nuovo rapporto tra l’esterno, spesso massiccio e squadrato, e l’interno che è ornato con arredi in legno ed in metallo piegati con incantevole fantasia grafica. Valutando l’opera di Mackintosch, quale architetto e designer, si evidenzia come sia stato difficile per lui, artista d’avanguardia, farsi strada da solo nell’Inghilterra d’inizio secolo. L’ordine sociale ferreo ed intransigente della classe dominante, minacciato da vicino nei suoi interessi dal movimento d’avanguardia, cominciò ad irrigidirsi su porzioni conservatrici togliendo il suo sostegno agli intellettuali progressisti. L’eredità dell’avanguardia moderna inglese passò dunque ai movimenti continentali. Per quanto riguarda la progettazione lo stile dell’architettura di Mackintosch trae ispirazione essenzialmente da fonti scozzesi. Egli infatti, a differenza degli artisti continentali, non sottolinea una polemica contro il tradizionalismo, ma attinge largamente alle fonti antiche, sia al repertorio neo-gotico convenzionale, sia all’eredità locale dell’architettura baronale scozzese
Nel design invece si distacca da ogni tradizionalismo per lasciare libero sfogo alla sua fantasia.Essenzialmente come ha affermato Filippo Alison in occasione della mostra C.R. Mackintosch (Showroom Cassina, Milano, 3-24/6/1982):“L’arredamento di Mackintosch, per la sua espressività così originale, e soprattutto per la sua caratteristica di assegnare all’ambiente una illimitata formalizzazione sintattica, ha corrisposto con gli odierni orientamenti del gusto, determinandone non poche volte, anche sbocchi che sembrano soddisfare, al di là della moda, il bisogno completo di un allestimento appropriato”.La ditta Cassina per ricordare l’opera del maestro scozzese ha rinnovato in questo periodo il contratto con
La casa Telematica (Telematic Home)
Poltrona, divano a due posti, a tre posti, lampada d’angolo, tavolino al centro “bloccati ad esprimere il rituale della conversazione mentre si prende il thè”. ”Fare salotto” è una pratica che ormai da tempo va scomparendo; così, gli scambi di informazioni nei “salotti” più o meno impegnati, “le quattro chiacchiere” tra signore sono un ricordo di rituali poco in uso. Eppure gli oggetti che ne definiscono il rito sono ancora là; “600 salotti, 400 camere da letto, 350 cucine”, si può ancora leggere lungo
Scenografia barocca
Per poter affermare che una scenografia è barocca non è sufficiente osservare i singoli elementi che la costituiscono, riconoscendoli come caratteristici dell’arte aulica del Seicento, è necessario piuttosto prendere in considerazione una serie di fattori rilevabili solo da uno sguardo di insieme ai vari “quadri” che costituiscono lo sfondo di un in’ntera opera.Ma questi fattori all’interno dello stesso periodo barocco, sono mutati e nella stessa proporzione sono mutate le scenografie. Intendendo delineare brevemente una direttiva di sviluppo Barocca, fissando le sue fasi principali , cominceremo con notare quanto sereno e statico equilibrio ci fosse nell’immagine scenica degli autori del primo ‘600 Ogni parte di questa gode di una relativa autonomia lo possiamo qui vedere nell’intermedio I dell’Giudizio di Paride” portato ad esempio dove sentiamo ancora la pregnante presenza del carattere rinascimentale: la profondità spazi è limitata e tutto s’in spera ad una moderna fantasia. Poco piu’ avanti nel tempo nei bozzetti di Alfonso Rivarola detto il Chenda cominciammo a notare l’interesse per il gioco prospettico che accentua la tensione dello sguardo finché nelle scene di Jacopo Torelli l’illusione dell’inferno vince sulla bidimensionali del fondale, per ripetersi in soluzione sempre piu’ ossessiva ed esasperata come avviene nella incisione di Marcantonio Chiarini
CUCINE ed ELETTRODOMESTICI:Sguardo al mercato Spagnolo
Il mercato Spagnolo è decisamente molto caratteristico,e si posiziona al quarto posto in Europa per giro d’affari,dopo Germania ,Italia e Gran Bretagna.Nel 2006 il giro d’affari è stato di circa un miliardo di euro per una spesa media della cucina che si aggira intorno ai 2700 euro.Le zone di maggior vendita delle cucine sono certamente legate a grandi aree metropolitane,come ad esempio quelle vicino alle città di §Madrid,Barcellona,Valencia e Alicante.Ma ciò che bisogna sottolineare è il fatto che quello spagnolo è un mercato in costante crescita:innanzitutto non è diminuita la fiducia dei consumatori nonostante il succedersi di eventi negativi sia a livello nazionale che internazionale,e poi bisogna evidenziare come in Spagna l’attività di costruzione di nuove case o appartamenti superi decisamente la media europea:nel 2006 sono stati consegnati più di 500 mila nuovi appartamenti residenziali,le persone preferiscono acquistare casa piuttosto che rimanere in affitto per anni,una filosofia che vale soprattutto per i giovani.
Componenti D’oggi Cucine di domani
Anteprima, presentazioni ufficiali presenze prestigiose. L’edilizia 2007 dello Zow di Pordenone è stata ricca di novità e sorprese che l’hanno resa un kermesse non solo importante. ma anche interessante e piacevole.
Alle caratteristiche sobrietà degli allestimenti ha fatto da contraltare il femento che ha animato da mattina a sera i corridoi e gli stand dei padiglioni fieristici, segno tangibile sia del successo della manifestazione sia dello stato di salute di un settore quello dell’arredamento che nonostante le numerose difficoltà non perde interesse per la ricerca e per l’innovazione. Perchè sono proprio questi gli ingredienti principali di estetica delle cucine di domani passa infatti dalla ricerca sui componenti che fanno luce su nuove prospettive per l’arredamento. Dal futuro dell’aspirazione all’organizzazione della zona lavaggio, delle nuove forme dei rubinetti alla compoetizione tra i diversi materiali dedicati ai piani di lavorodi spunti a Pordenone se ne sono visti molti. E non solo gli aspetti piu’ rappresentativi e prestigiosi della produzione, come avviene nella fiera dal target piu’ ampio e meno specialistico ma il meglio dell’offerta declinata secondo ogni stile e ogni fascia di mercato.
la parola d’ordine è concretezza, e la missione fondamentale di ogni azienda è far toccare con mano i prodotti a tutti i cucinieri presenti a Pordenone. Sono proprio gli espositori infatti a ricordare che la vera utilità di un appuntamento come lo Zow sta nel poter incotrare in pochi giorni tutti i clienti, e far ammirare loro quei dettagli a cui nessun catalogo puo’ rendere davvero giustizia. Soprattutto perchè a detta di chi opera nel settore non è affatto semplice convincere i cucinieri della validità delle proprie proposte entrare nei cataloghi e poi nelle mostre che contano. Se questo è vero in generale lo è a maggior ragione quando ci si prepara a Eurocucina, e ci si gioca quindi la possibilità di essere presenti nelle esposizioni piu’ prestigiose, quelle che saranno sotto gli occhi di tutto il mondo. Molti dei complementi contribuiranno attivamente a costruire nuove tendenze. Perchè il design non procede solo dall’alto verso il basso, delle grandi idee unificanti alla scelta dei dettaglio, ma puo’ anche propagarsi da tutti quelli elementi che insieme contribuiscono a costruire un progetto. E cosi’ già tra gli stand di Pordenone, è stato possibile intravedere quelle che molto probabilmente diventeranno parole chiave in cucina. Qualche esempio? Vetro superfici decorate, modularità personalizzazione….
TRA PROMOZIONI E NUOVE TENDENZE
Da un paio di numeri Built In sta dedicando spazio al tema delle promozioni legate agli elettrodomestici. Si tratta di un’abitudine ormai consolidata che ha il pregio di vendere un maggior numero di apparecchi e senza la quale i consumatori sembrano non voler stare. Ma come tutte le abitudini oggi la promozione sulle lavastoviglie ha perso parte del suo appeal. perchè è un ‘operazione talmente massificata che non costrituisce piu’ un reale vantaggio competitivo per i rivenditori.
Alcuni produttori di cucine sostengono che questo è l’unico modo per evitare il triste fenomento dei buchi. Quando invece si propone al consumatore la lavastoviglie in omaggio a fronte dell’acquisto di tutti gli altri elettrodomestici questo rischio viene scongiurato. Un simile ragionamento ci riporta a un altro tema caro a questo sito: gli elettrodomestici, in fondo, costituiscono una parte importante del fatturato sia del cuciniere sia del mobiliere, tanto rilevante che si adottano anche metodi mutuati ad altri canali ( le promozioni, per l’appunto) pur di garantirsi questa entrata.
Ebbene se di principio non siamo contrari a scontistiche o regali al cliente finale, strumento assai rilevante per ogni tipo di business, ci sentiamo comunque di sottolineare un dato importante riportato da molti operatori: spesso nella fase di acquisto della cucina i consumatori tendono a ricercare il meglio non solo nel legno ma anche nell’eletrodomestico. Vale la pena dunque prendere in seria considerazione questa tendenza, valutando sempre attenzione quale di cliente si ha davanti: quello che sta investendo in un mutuo oneroso per una casa che dovrà durargli per tutta la vita.
Promozioni Facili
I cucinieri, si interrogano sull’ effettiva utilità della lavastoviglie in omaggio, un incentivo di sicuro successo che pero’ col tempo e’ diventato una prassi. Le opinioni sull’argomento si dividono, tra la voglia di cambiare rotta e la consapevolezza che in questo momento e’ difficile farlo.
Basta sfogliare le pagine di qualsiasi rivista di arredamento per rendersi conto che sono davvero tanti i produttori di cucine che fanno ampio ricorso a promozioni che prevedono l’offerta della lavastoviglie. Sul fatto che si tratti di un’ abitudine che fa bene al mercato pero’ i dubbi sono molti.
Già ascoltando in merito i produttori di elettrodomestici è emerso uno scenario fatto di luci e ombre, tra aziende che appoggiano le promozioni, e altre che invece oppongono una netta resistenza a questa pratica, che ritengono sostanzialmente inutile e dannosa.
Ci si sarebbe dunque aspettati che almeno i cucinieri, primi promotori e in teoria beneficiari della promozione, fossero convinti sostenitori di operazioni del tipo “lavastoviglie in omaggio”. In realtà anche tra i produttori di cucine le opinioni divergono. C’e’ che ritiene che gli incentivi tramite omaggio siano un valido strumento per supportare le vendite e soddisfare il consumatore. Molti altri invece considerano quello della promozione un meccanismo che, pur avendo perso con gli anni gran parte della sua efficacia è attualmente davvero difficile da cambiare.
Scena D’interno – la casa di Tony Duquette , scenografo a Los Angeles
il principio è la scena della commedia borghese. “salotto in cosa del consigliere Agazzi”;
oppure : ” salotto in casa di Silia Gala, bizzaramente arredato”; o ancora; Salotto in casa della Scotti, in fondo una galleria che mette sulla destra all’anticamera…”il sipario si apre su un ambiente cavo, rissuchiante, dove già la disposizione – studiatissima – dei mobili e delle suppellettli stabiliscie ruoli, funzioni e movimenti.
Parliamo del teatro, ma anche, indifferentemente, della casa vera e propria. Lo scambio fra i due ambiti, quello delle mimesi e quello delle socialità quotidiana, è continuo, tanto che Herving Goffman ha parlato esplicitamente di “ribalta” per indicare il territorio nel quale si dipanano le nostre relazioni interpersonali. E poichè nell’abitare quotidiano è il soggiorno – o il salotto, o la sala , ovvero il salone per le dimore ottocentesche – a fungere da ambiente di facciata, tutte le altre stanze sono relegate alla funzione di “retroscena”, cioè secondo la definizione di Goffman di luogo “dove l’impressione dovuta dalla rapresentazione stessa è scientemente sistematicamente negata”. Nel gioco delle relazioni sociali questa divisione è sempre stata, fin dal secolo scorso fondamentale. I Buddenbrook, per esempio, si aprono con una classica rapresentazione sociale, un pranzo durante il quale i membri della famiglia recitano le loro parti di nanzi ad un publico pronto all’applauso. Prima di andare a tavola essi attendono gli ospiti nell’intimità della sala dei paesaggi,nella quale in proporzione con la vastità della stanza i mobili non erano numerosi. La relativa ambiguità funzionale dell’ambiente ne consentiva l’indifferente passato dal retroscena all’aribalta; e di fatti in quella stessa stanza avverà il colloquio risolutivo fra Tony Buddenbrook e Bendix Grulich, suo futuro marito. Il locale, del resto, era situato in posizione strateggica rispetto agli altri punti indispensabili alla recita; attraverso una porta a vetri che si apriva di faccia alle finestre si intravedeva in penombra una galleria a colonne, mentre a sinistra di chi entrava una altra porta…. condiceva in sala da pranzo. Ed è appunto nella sala da pranzo che i bundebrook – come tutti gli aggiati borghesi dell’Ottocento – danno la loro piu’ impegnativa rapresentazione, recitando non solo davanti ai loro ospiti. ma , in certo senso, anche davanti all’lettore, che puo’ in tal modo passare in rassegna i principali personagi dell’romanzo. Le regole del gioco sociale vengono cosi’rispettare secondo le minuziose norme dell’ambientazione scenica: i protagonisti si definiscono in virtu’ dell’oro rapporto di vicinanza o lontananza reciproca; e lo spazio letterario o teatrale reggistra questa misura fisica e la sua risonanza psicologica esattamente come lo spazio abitativo.
Il mobile Toscano
I mobili occupano un posto particolare nel mondo degli oggetti, utili o inutili che siano, che segnano il cammino del nostro vivere. Sulla produzione dei mobili restano molti interrogativi, artigianato e industria sono termini difficilmente scindibili.In Toscana, per esempio, esiste una tradizione artigiana fortemente radicata in cui si rivela un forte legame con le forme e gli stili ereditati da una storia secolare fortemente radicata, in cui si rivela un forte legame con le forme e gli stili ereditati da una storia secolare accanto ad un mondo più evoluto di produrre, di organizzare il lavoro e di concepire il prodotto. Il grande approvvigionamento del legno in grandi cataste, marchiate, stivate e stagionate all’aperto, permette di garantire un prodotto pronto all’uso in qualsiasi momento.Ogni tavola viene minuziosamente esaminata per scartare le parti difettose contenute, come “nodi cadenti”, “cipolle”, “sciograture” ecc…Il legno, selezionato, viene stivato in un magazzino a temperatura costante affinché si verifichino le perdite di umidità perché il legno per noi è materia viva, respira e subisce i processi negativi degli agenti atmosferici.Prima di procedere alla lavorazione si controlla la stagionatura di ogni singola tavola assicurando che non ci siano difetti, poi avviene la prima operazione: il taglio con la sega. Vengono effettuati gli incastri, le cave le scorniciature alla “tronfia” e la levigatrice a piano provvede alla carteggiatura, dopo di che ogni operazione è affidata alla manualità degli artigiani.Ogni singolo pezzo è preparato al banco con gli attrezzi usuali per la lavorazione artigiana del legno, entrano in gioco, la morsa a vite, lo scalpello, il pialluzzo, lo sbozzino, la sgabia la lima.Ogni pezzo è plasmato pronto ad unirsi, ad incastrarsi nella nuova dimensione di forma: il mobile.Quest’ultimo viene colorito con un procedimento antico e particolare, senza coloranti ma con sostanze alcaline che a contatto con il legno di castagno faranno fuoriuscire l’acido tannico contenuto, auto colorandosi. Solo così vervature e preziose ombre naturali della materia, riaffiorano e si mantengono vive nel tempo. Su queste superfici viene stesa una mano di sottofondo a supporto della cera che verrà fissata in seguito. L’ultima fase della lavorazione, prevede che ogni sedia tavolo o credenza, sia portato in un ambiente climatizzato affinché la lavorazione possa fissarsi completamente. E il mobile è pronto per la patinatura e per la carteggiatura a mano.Queste fasi di lavorazione sono ancora oggi utilizzate per la lavorazione e la costruzione dei mobili utilizzate dalle più importanti aziende nel cuore della toscana.
Lavorare il legno…
Parlando di falegnami si e soliti dire che i due più famosi della storia sono San Giuseppe e Mastro Geppetto. Dati certi su di loro non esistono anche se esistono, anche se esiste una buona quantità di informazioni e di fonti iconografiche. L’iconografia religiosa ci ha abituati a Giuseppe falegname che impugna i tradizionali ferri del mestiere, così come siamo abituati a conoscerli. Si sa che le rappresentazioni pittoriche tendono ad attribuire ai personaggi raffiguranti fattezze, abbigliamenti ambienti propri dell’epoca in cui vive l’autore dell’opera. In particolare per quanto riguarda Giuseppe, l’iconografia che più frequentemente ce lo mostra al lavoro, ci presenta un uomo barbuto e drappeggiato di manti che impugna il suo bravo martello la sega a telaio, la pialla. In questo caso però non siamo davanti ad un falso storico molto grave, perché gli strumenti che il falegname Giuseppe ed i suoi colleghi di duemila anni fa, erano sempre gli stessi. Nella falegnameria l’evoluzione degli utensili ha subito una svolta non solo con l’avvenuto della meccanizzazione di alcuni strumenti, ma anche laddove la tecnica di lavorazione è radicalmente cambiata con il rinnovamento tecnologico, qui ci si è fermati appunto allo stato della meccanizzazione, anche perché il legno nella produzione industriale è stato sostituito da altri materiali, e il falegname è rimasto sostanzialmente un artigiano. Se si vuole Usare il legno lo si deve tagliare, piallare, assemblare i pezzi: so fa meno fatica ma le operazioni sono le stesse di duemila anni fa; il martello poi è rimasto insostituito ed insostituibile: perché la sua manualità è indispensabile. Quello che è cambiato forse è il disegno dell’oggetto, e soprattutto negli ultimi anni, più per le esigenze del bricoleur che dell’ artigiano.
EZE-LA-BELLE, VERA OASI MEDIEVALE
Il suo nome deriva da Isia, dea dei fenici, ma il ricordo piu’ vivo di Eze Village è quello dell’epoca medievale, ancora più presente e visibile.
E’ situato solo a
Eze nella quasi totale integrità del suo legame con il passato, è necessario addentrarsi nella storia, non tanto quella poco leggibile e oscura che vede Pelagi, Etruschi e Fenici alternarsi o competere per il posto dei veri antenati degli abitanti di Eze, ma la storia più sicura e attendibile che assegna da una parte ai Celti, dall’altra ai liguri il ruolo di suoi padri adottivi, i primi conquistatori, i secondi dominati, tanto dissimili nel carattere ma in grado di convivere in pace nella sorte comune della dominazione romana avvenuta più tardi che mise fine alle discordie tra loro, ma ovviamente ne creò altre. Dal governo di Roma al succedersi dei popoli Barbarici, dopo la caduta dell’Impero, dai Saraceni alla liberazione ad opera di Guglielmo, conte di Provenza nel X secolo. Sorvoliamo l’età medievale che, a parte una serie di transazioni, donazioni, divisioni e investiture, non lascia documentazione alcuna che riveli i segreti del villaggio di Eze. Solo il flagello della peste diviene degno di nota storica, vedendo la confraternita dei penitenti bianchi operare coraggiosamente nell’assistenza dei colpiti dal male mortale. Per avere una data memorabile bisogna giungere al 1792, quando con l’arrivo dei Sanculotti viene confermata l’unione di Eze alla Francia: nel 1860, anno dell’Unita’ d’Italia, il popolo di Eze vota all’unanimità per la definitiva annessione alla provincia di Nizza allo stato francese. Con le parole di Gorge Sand concludiamo la breve visita a “Eze-la-Belle”, con un’occhio ancora al paesaggio, suggestivo ed emozionante:”Il panorama della cornice è veramente un’incanto… ad ogni passo la costa sinuosa offre un magico decoro… Le rovine di Eze, appollaiate su un cono di roccia, con un pittoresco villaggio che pare di pan di zucchero, cattura l’attenzione. E’ la più bella vista dell’itinerario, la più completa, la meglio composita”.
DISEGNI E VOLUTE PER SPAZI VIRTUALI
Le eleganti volute dei cancelli risvegliano l’interesse per un manufatto che, pur adattandosi nel tempo ai diversi stili architettonici,ha scritto un capitolo a parte nella storia delle arti.Questa panoramica semplificativa della produzione degli artisti del ferro che segue l’evoluzione dei cancelli dal Medioevo al Liberty racconta della sempre più curata funzione ornamentale di questi elementi per definire spazi virtuali per chiese e palazzi un’arte fatta di abilità e fantasia.E’ nella natura di un cancello delimitare uno spazio escludendone i più,ma il suo fascino sta nell’addolcire o,al contrario,nel rendere più amaro il divieto concedendo la visione di quello che sta al di là di esso,magari attraverso volute eleganti,disegni preziosi come una trina.Materia prima in cui sono forgiati i cancelli e il ferro,un metallo che ha accompagnato l’uomo fin dall’antichità,ma non nella realizzazione di oggetti artistici,perchè fino al Medioevo non si possedevano le conoscenze tecniche necessarie a rendere il ferro facilmente lavorabile.La storia dei cancelli in ferro inizia nel XII secolo e soltanto nel Duecento alla funzione puramente utilitaristica si aggiunge un’esigenza decorativa che dà luogo ai primi splendidi esempi di cancelli in ferro battuto,per altro destinati esclusivamente ad abbellire luoghi di culto,nella cui realizzazione si dimostrarono particolarmente abili i fabbri francesi.In Italia l’arte di lavorare il ferro per farne cancellate si fa strada soltanto nel Trecento;motivo caratteristico nella loro decorazione è il quadrilobo che,con modifiche e aggiunte,resiste fino a tutto il Cinquecento.E’ in questo periodo che i manufatti in ferro battuto si estendono dalle chiese alle dimore patrizie che,ma solo in Italia e Spagna,cominciano a circondarsi di grandiose cancellate.Un cambiamento sostanziale nella decorazione dei cancelli si verifica con l’avvento del Barocco;nuove conoscenze consentono di rendere il ferro più facilmente lavorabile e di piegarsi alle curve fantasiose,alle volute e ai fregi che caratterizzano il nuovo stile di cui maestri indiscussi,come in molte espressioni artistiche,sono i francesi.Nell’Italia settentrionale questa influenza è molto forte,anche se i modelli d’oltralpe vengono rielaborati in base alle tradizioni locali.Durante il Seicento e nel settecento con il Rococò il tipo di cancello più diffuso è caratterizzato dalla presenza di motivi vegetali nella parte inferiore e da una cimasa curvilinea con volute e riccioli.L’azione concomitante dello sviluppo delle tecniche di fusione e del mutamento del gusto decorativo porta,tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento a un cambiamento sostanziale nell’aspetto dei cancelli:non più elaborati motivi di ispirazione vegetale,ma schemi essenziali completati da rosette,borchie e nastri,temi decorativi caratteristici dello stile Neoclassico.Il ferro battuto viene sempre più spesso sostituito dal ferro e dal bronzo fusi,con i quali si realizzano sia cancellate che ringhiere di balconi.La vecchia tecnica del martellamento non è però messa definitivamente da parte,anzi nella seonda metà dell’Ottocento correnti artistiche come le Arts and Crafts le danno nuovo impulso.In seguito esponenti di primo piano del movimento dell’Art Noveau fanno del ferro,sia battuto che a fusione,un protagonista eccentrico delle loro realizzazioni.
LA CREATIVITA’:Un’efficace arma contro i falsi
Conoscete qualcuno che dichiari di fare dei prodotti di bassa qualità? Io no,non so di nessuno.Eppure la bassa qualità esiste:viene indossata,mangiata,bevuta,letta,guardata,ascoltata.Ma tutti proclamano che i loro prodotti sono di alta qualità.Questo dimostra che sul termine “Alta qualità” le idee sono piuttosto confuse.Per sgombrare il campo dagli equivoci occorre dire con chiarezza una cosa.La qualità è un elemento che sta in equilibrio con il valore,e dunque con il prezzo.Non necessariamente un prodotto di prezzo elevato sarà di alta qualità.Ma inevitabilmente un prodotto di alta qualità sarà di prezzo elevato.E’ una legge che non ammette eccezioni.La stessa legge ,ma capovolta,vige in basso.Qui possiamo osservare che non necessariamente un prodotto di bassa qualità sarà di basso prezzo.Ma si può affermare con certezza che un prodotto di basso prezzo sarà di bassa qualità.Non a caso l’alta qualità è stata inventata dal settore del lusso.Inventata non solo come termine o slogan,ma come criterio di riferimento,come insieme di principi e di regole cui attenersi scrupolosamente nella progettazione e nella realizzazione dei prodotti.Il concetto di alta qualità si fonda su alcuni principi basilari.I materiali devono essere di primissima scelta,il design deve essere originale.La lavorazione deve essere di grande artigianato specializzato.L’insieme deve dare un prodotto raro e caro,prezioso non solo negli ingredienti ma anche nella progettazione e nella realizzazione,oltre che innovativo.E’ solo da questa mescolanza di qualità eccellenti che può nascere un prodotto di alta qualità.La creatività è una componente intrinseca dell’alta qualità.E,fra tutte le componenti,è la più rara.Oggi la creatività è in declino.Ma per le grandi marche del lusso non è meno indispensabile dei materiali pregiati.Perchè è proprio la creatività il valore aggiunto che trasforma la materia indifferenziata in un oggetto irripetibile,inconfondibile,originale.Di alta qualità.Questo concetto di alta qualità,e il rigoroso rispetto dei suoi principi,sono la migliore difesa contro due pericoli che minacciano le nostre economie occidentali e il mondo dei prodotti di lusso.Uno dei due pericoli si chiama contraffazione.Non tanto la contraffazione volgare (quella delle cattive imitazioni a basso prezzo),quanto piuttosto la minaccia ben più insidiosa dei falsi realizzati con materiali preziosi e lavorazioni accurate.Un tipo di contraffazione che,in un uso improprio del termine,potrebbe essere definita “di alta qualità”.Per lottare contro questa insidia non c’è miglior mezzo di questo:un’applicazione rigorosa del concetto di alta qualità dove la creatività occupi il posto che merita.Perchè è questa la sola cosa inimitabile:la bellezza del prodotto originale.L’altro pericolo,che minaccia la nostra economia nel suo insieme,è quello di prodotti di bassissimo prezzo,rovesciati sul mercato da paesi che possono ancora giovarsi di costi irrisori del lavoro.Anche contro questo tipo di pericolo la creatività è strumento di difesa molto più efficace delle barriere all’importazione.Bisogna combattere con la testa,con il cervello.L’alta qualità è nella materia più preziosa:quella grigia.
IL VALORE DELLE COSE
Io sono un uomo d’ordine e pretendo che a ogni parola corrisponda una cosa,non due o tre.Ovvio che mi si spalanchi davanti un destino di frustrazione,ogni volta che si tira in ballo la qualità.Tutti ne parlano ma ognuno le da un significato diverso e,guarda caso,sempre piuttosto vago.Così mi viene voglia di darmi alla quantità,che almeno è misurabile.In fatto di perversione quantitativa ci sarebbe un predecessore illustre,Don Giovanni,non interessato alle qualità fisiche e tantomeno morali delle sue conquiste ma solo al loro numero.Poi per fortuna mi riprendo,torno sui miei passi,consapevole che la quantità porta all’inferno e la qualità al paradiso.L’importante è dare un significato preciso alla parola.Chi non ha altri parametri tende a collegare la qualità al prezzo.Il biglietto di un film di Martin Scorsese costa la stessa identica cifra del biglietto per un film di Federico Zampaglione.La qualità non è pertanto questione di prezzo ma di valore.Un libro è di qualità quando arrivo all’ultima pagina e mi dispiace che sia già finito.Le scarpe sono davvero di qualità quando oltre a essere belle non fanno entrare l’acqua e non mi torturano l’alluce.Quindi la qualità è un insieme di qualità,un armonico dispiegarsi di molteplici virtù.Non basta che un divano stia bene in un salotto,intonandosi con gli altri mobili,deve anche usare la cortesia di non sfondarsi quando i pargoli lo scambiano per un tappeto elastico.In infiniti casi la qualità è sinonimo di durata.Il tempo è galantuomo e punisce le infatuazioni momentanee.Sono convinto che dietro a ogni oggetto scadente ci sia un produttore degno di Musil,un uomo senza qualità e quindi senza amore per il proprio lavoro.In fondo il significato di una parola lo si può fissare anche attraverso il suo contrario e il contrario di qualità,adesso lo so,è nichilismo.
Finlandia costruire con il legno
Lontana da un turismo internazionale,sconosciuta o quasi da molti,la Finlandia offre un paesaggio di fiaba unico al mondo.Possiede sterminate isole,laghi,foreste di betulle e di conifere;è un intricato spazio in cui è possibile isolarsi tra silenzio e solitudine per un contatto forte e diretto con la natura.Le notti, brevissime d’estate,assomigliano a crepuscoli e i paesaggi a magiche abitazioni di gnomi e di fate.Lacultura antichissima,si differenzia in modo evidente dalla nostra e lascia nel profondo di chi l’ha avvicinata,un senso di struggente malinconia.Rocce,insenature,isole erose dai mari si contrappongono a rupi emergenti e boschi:pini,abeti e betulle coprono quasi interamente il suolo.Fiumi e laghi raccolgono l’immenso tesoro ittico e i boschi quello importante del legno,che determina l’economia di questa nazione.D’inverno quando tutto dorme sotto le nevi e la calma investe flora e fauna,i contadini si trasformano in taglia legna o falegnami.Con i suoi trenta milioni di ettari di foreste la Finlandia costituisce una delle maggiori riserve di legno Europeo.Vengono tramandate di padre in figlio consuetudini,usi e segreti;vengono utilizzati gli attrezzi semplici e familiari.Il legno,le sue lavorazioni e l’esportazione della materia prima contribuiscono a determinare in modo fondamentale la vita degli abitanti di questa nazione.Il gusto per gli incastri e il lavoro artigianale hanno permesso la nascita di mobili dalle linee particolari,semplici e funzionali al tempo stesso.Qui sono nate anche importanti e inconfondibili architetture sotto la spinta di grandi maestri come Alvar Aalto,Carl-Joan Boman oLlmari Tapiovaara.Le case dei villaggi più piccoli affidano talvolta la loro bellezza al gusto di un semplice decoro di incastri,dalle fasce e dalle tonalità dei legni,dando luogo a eleganti giochi compositivi.Le cornici,gli ornamenti,le riquadrature,le scale sanno completare gli aspetti decorativi e personali di ciascuna abitazione.I villaggi dei pescatori assomigliano a piccoli labirinti e ciò che stupisce è l’uso variegato dei colori su tutte le superfici.Il più piccolo oggetto d’uso quotidiano o le grandi costruzioni raggiungono sempre un alto livello qualitativo.Tutto si fonde armoniosamente con la natura circostante;pendii,sentieri,limitano e dividono senza violenza,le proprità.In questi spazi,con la possibilità delle ricchezze naturali,l’uomo ha compreso l’importanza di vivere tra il cielo,il mare e la sua terra.Si contrappone il letargo invernale alle misteriose e brevi notti estive e l’abitante ha ritrovato l’esperienza primordiale della natura.Anche le forze vitali hanno determinato il carattere alle città.Ogni anno gli alberi,la natura reinterpretano i processi nella creazione;vivono le forme inquetanti della foresta dalle lunghe ombre e le acque dinamiche purificano ogni cosa.Le città non nascono secondo concezioni urbanistiche a noi note,per un uso sfrenato di macchine,ma anche negli esempi più avanzati tecnologicamente si riservano ambienti confortevoli,liminosi,areati.Ogni città deve assomigliare ad un giardino,l’estetica,la gioia,l’appagamento ad una spiritualità vengono premiate con viste su ampi parchi,fontane,laghetti e le strade richiamano a piacevoli passeggiate.Gli abitanti rimangono fieri testimoni di un passato,conservando con cura ciò che la natura a loro donato.I ritmi temporali non hasnno modificato gli elementi fondamentali di questi luoghi naturali ma hanno contribuito a plasmarne i caratteri riflettendosi nei miti e nelle favole.
Il legno che “canta”…
Un disegno, una forma di legno che riproduca gli esatti contorni del futuro violino. Abete ed acero fanno il riccio, manico, filetto, fasce, tavola e fondo. Qualche accessorio una ventina di buone mani di vernice, e lo strumento è fatto…..
Già, ma come suonerà? … Ecco, questo è il punto cruciale del “dossier violino” lungo tutti e quattro secoli della sua vita dedicata alla musica.
I suoi antenati suonavano nelle sale del basso medioevo, quando tutta la famiglia delle viole da braccio, magari insieme ad altri strumenti o a fianco di menestrelli popolari o cortigiani, allietava con vibrazioni gentili, gli schiamazzanti saloni dei manieri signorili. Finché, verso la metà del XVI secolo, un bel giorno qualcuno “Sentì” che i tempi erano maturi per far nascere un nuovo strumento, che potesse emergere dall’anonima marea degli strumenti nati o perfezionati durante i 5 secoli Medioevali, e per il quale i compositori avrebbero scritto una nuova musica.
E qualcosa del genere in effetti accadde. La musica classica era alle porte, il lungo periodo della preistoria della musica colta stava per finire: Monteverdi, Vivaldi, Bach avrebbero di li a poco acceso la miccia alla seconda rivoluzione musicale.
Il “piccolo” violino entrò direttamente in rapporto dialettico con questi fermenti, insieme agli altri nuovi membri della sua famiglia, i violoncelli e i contrabbassi, co-protagonisti della nuova musica e ispiratori dei nuovi compositori e, coinvolto da tanta responsabilità, non potè deludere i suoi sostenitori e, soprattutto, i suoi costruttori, coloro i quali gli avevano dato la voce…I loro nomi sono noti: dal cinquecentesco Andrea Amati, capostipite della scuola classica cremonese che aprì bottega nella contrada dei cortilinari, al più famoso Nicolò Amati, indiscusso maestro Liutaio della prima metà dal ‘600.
Gli arcinoti Giovanni Guarneri (1698 – 1744) detto “Del Gesù” per il modo in cui fermava i suoi strumenti, e Antonio Stradivari (1644 – 1737), probabile allievo di Nicolò Amati, nonché massimo rappresentante del sistema di costruzione classico Cremonese, detto “Della forma interna”. Si racconta che Stradivari, “tipico uomo rinascimentale, geniale, metodico, sempre teso nello sforzo di sposare arte e scienze, riassunse l’esperienza di 150 anni di liuteria, rivitalizzandola scientificamente con precisi principi di chimica e fisica acustica”.
Stradivari, primo fra tutti, non lasciò nulla al caso: dal minuzioso ed essenziale studio della forma, e delle dimensioni del nascituro strumento, alla rigorosa ricerca del materiale (Abete rosso maschio per il piano, Acero per il fondo), dalla meticolosa fase costruttiva al particolarissimo sistema di verniciatura in due tempi con antiche ricette e nuovi ricercati ingredienti. Ebbene la scientificità con la quale questo geniale liutaio affrontò la costruzione dei suoi violini, ebbe non solo il risultato di mettere a disposizione dei suoi contemporanei degli strumenti eccezionali e irripetibili, ma lasciò tracce ben definite del suo lavoro così da poter servire come eredità a pochi artigiani che in seguito vollero raccogliere, tra i quali Omobono e Francesco figli di stradivari, che malauguratamente sopravvissero di poco al longevo padre. Analoga sorte toccò ai Guarneri, tanto che si può tranquillamente sostenere che l’apice qualitativo e quantitativo nella costruzione del violino col metodo classico Cremonese, fu esclusiva della prima metà del XVIII secolo. Poi, trentanove anni dopo la morte di stradivari, il “Reggio delegato all’economia camerale e militare della Lombardia, Gianluca Pallavicini”, stretto collaboratore di Maria Teresa d’Austria, soppresse a Cremona le corporazioni d’Arti e mestieri. Fu, questa, una delle tante riforme che dettero addio a mutamenti sociali e politici di portata continentale, ma che nello stesso tempo, segnò per la famiglia degli strumenti ad arco, una rottura storica con i preziosi modo di produzione del mondo antico… Molte botteghe si chiusero ed i mercati decaddero. Lo smantellamento della struttura interna dell’arte e dei mestieri, produsse una crisi non soltanto nei giovani che intendevano imparare ma soprattutto nei maestri di bottega i quali persero ogni e qualsiasi prerogativa assegnata all’antico “Magister” che poteva avere sotto di se, per un certo numero di anni, garzoni, apprendisti e praticanti. Si perdettero persino gli insegnamenti e gli allievi non si raccolsero più intorno a “Chi sapeva”… Il tramonto delle vecchie Universitatis ha privato il mondo della musica di un’arte che non è stata più continuata. Ma un terso elemento concorse ad assottigliare ulteriormente le gia sparute fila dei liutai che seguirono il metodo costruttivo stradivariano, e fu la formazione delle prime grandi orchestre sinfoniche che fece aumentare vertiginosamente la richiesta di strumenti ad arco. Nei decenni a cavallo del 1800 assistiamo quindi ad un incremento quantitativo dell’attività liuteria a sensibile discapito della qualità e vediamo difatti affermarsi il metodo costruttivo alla francese, detto della “Forma esterna”, di più rapida realizzazione e rispondente perciò alle esigenze dei tempi. Ecco che quattro secoli di lavoro creativo e di tradizione empiriche e quasi misteriche sulle forme della tavola e del fondo, sulle posizioni delle effe, sull’anima dei legni, delle vernici, non furono più utilizzabili al meglio della loro riuscita. Si affermò quindi un irreversibile processo di dispersione del più puro patrimonio liutaio, e ci si avviò verso un lento ma inesorabile surrogato della tradizione creativa, per lasciare il posto ad una tradizione di sopravvivenza talora di buon livello, ma una tradizione-feticcio, da alcuni chiamata “Cultura liutaria dell’imitazione”.Dobbiamo aspettare i recenti anni ’50 per avere la cronaca delle prime iniziative di personaggi come Simone Sacconi (liutaio restauratore presso la Wurlizer di New York), che tentò di far ripartire gli arrugginiti ingranaggi della liuteria classica: e rimettere in piedi correttamente il rapporto uomo/materia nell’artigianato musicale era un programma ambizioso non solo per ciò che è andato perduto nelle tecniche costruttive, ma per quello che si perde oggi nella frenesia distruttiva e consumistica, della vita del lavoro quotidiano. La proposta non è però caduta nel vuoto, I liutai cremonesi, ad esempio, si sono associati e ed organizzati, e molti altri si stanno ridestando dal lungo sonno. E i risultati qualitativi si possono già documentare, anche se lo strumento moderno deve ancora vivere, suonare, cioè crescere alimentandosi proprio con ciò che produce: il suono, appunto… come potete vedere, la fretta e da sempre nemica del buon violino.
Gli stili usati in Italia nel corso degli anni
Tabella cronologica degli stili usati negli anni in Italia
periodo | stile |
Da |
Gotico Internazionale |
da |
Primo Rinascimento |
da |
Pieno Rinascimento |
da |
Tardo Rinascimento e transizione al Baroccco |
da |
Primo Seicento |
da |
Barocco |
da |
Tardo Barocco |
da |
Barocchetto e Rococò |
da |
Neoclassico |
da |
Direttorio |
da |
Impero |
da |
Luigi Filippo o Carlo Felice |
da |
Secondo Impero o Pieno Ottocento e Neogotico |
da |
stili Neorinascimentali in parallelo allo stile Floreale e Liberty Italiano |
da |
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tendenze varie ispirate al Deco’ |
Varie essenze e gomme d’angelo
Un luogo comune alquanto consolidato suole contrapporre l’artigiano all’industria moderna.Tuttavia sebbene questa contrapposizione non sia priva di verità, esistono ancora alcuni settori industriali in cui questi due aspetti sembrano fondersi; tra di essi vi è il settore mobiliero.Qui talvolta accade di trovare industrie in cui il moderno è presente solo nella dimensione degli spazi e del numero degli addetti mentre tutti quanti gli altri aspetti, quale l’uso di determinati modelli o l’amore per la manualità, non si distaccano alcunché dalla tradizione artigianale.Ed è solo grazie a questa unione, tra tradizione artigianale ed industria moderna, che alcuni procedimenti potranno essere tramandati nel tempo.Infatti via via che gli artigiani invecchiano e scompaiono, si va esaurendo la grande tradizione delle botteghe mobiliere, una tradizione ne scritta ne parlata, ma fatta di gesti appresi in lunghi anni di duro e paziente lavoro.L’ottima scelta di poche case d’arredamento, è stata quella di integrare un’azienda moderna con l’esperienza di artigiani che altrimenti sarebbe andata persa.Queste ditte hanno deciso di dedicare la maggior parte della loro produzione ai mobili antichi, qui l’aggettivo “antico” non è usato a sproposito dato che i mobili prodotti, non solo di rifanno a quelli originali nelle forme, ma subiscono le medesime fasi di lavorazione che sarebbero state effettuate da un abile artigiano.Qui antiche forme di lavorazione come l’intarsio e la lucidatura a mano vengono effettuate secondo l’antica tradizione; l’intarsio viene ottenuto impilando vari supporti, ed alternandoli con essenze di legno, (strati di legno di 6 o 8/10 di millimetro). Tutto poi viene passato al traforo che provvede a tagliare, secondo un disegno prestabilito, le essenze; queste vengono ombreggiate mediante l’immersione in sabbia rovente. Poi avviene la lucidatura; qui sono bandite le tinteggiature sintetiche e poliuretaniche e viene ancora utilizzata l’antica tintura all’acqua all’anilina che viene poi lucidata mediante una miscela di gomma d’angelo e alcool.Questa miscela viene posizionata su mobili da lucidare e stesa con un procedimento che solo l’esperienza può permettere d’effettuare senza errori.Il tampone infatti deve girare sempre nel medesimo senso, e deve essere mosso più uniformemente possibile in quanto che ogni sosta produrrebbe degli scompensi nella colorazione e nella lucidatura. Questa operazione deve essere ripetuta molte volte, onde poter ottenere quella particolare lucidatura antica. Ma aldilà di questi aspetti tecnici, importantissimo in per sé è l’amore per la tradizione, per il bello, ed il coraggio di aver rinunciato a certe tentazioni innovative che hanno portato troppo spesso a deturpare l’antico, con dubbie manomissioni.
Il Simbolismo nell’arte dei tappeti
Il simbolismo nell’arte dei tappeti, è uno degli argomenti più affascinanti e discussi: quante volte, attratti dal gioco delle forme e dei colori, abbiamo tentato di ravvisare chissà quali messaggi provenienti da una realtà poco conosciuta e, che per questo, ancora più ci coinvolge e ci stimola.Il tappeto per noi è uno dei tanti oggetti ornamentali, per gli orientali, è un modo di vita, da quando lo tessono a quando lo usano.I simboli che l’artigiano con arte vecchia di secoli, riannoda pazientemente, hanno perso il loro significato iniziale, per assumere quello di testimonianza ancora viva delle tradizioni, di un passato che si rinnova e si tramanda.Questi simboli hanno radici lontane, non sono nati per caso ed hanno subito nel corso dei secoli, tutte le influenze ed i cambiamenti che scambi culturali, religiosi e commerciali poterono favorire.La loro decodificazione quindi può essere, tenuto conto di questi cambiamenti, oggetto di studio ma non deve divenire un’ossessione.A volte motivi e segni a cui si vorrebbe dare un’interpretazione, altro non sono che “Sviste d’autore”; è bene ricordare che l’artigiano, non vuole tramandare messaggi, ma solo ed esclusivamente le sue tradizioni, egli quindi si ispira ad esse e alla natura.Vorrei parlare in particolare di un tipo di lavorazione nell’arte del tappeto, quello Caucasico.Il tappeto Caucasico, e un tappeto dall’assoluto rigore geometrico, il suo disegno è un gioco continuo di triangoli, esagoni, quadrati. Nel suo complesso si possono trovare, accostati a simboli elementari e tribali, simboli più complessi ma in ogni caso tutti riprodotti senza alcuna concessione allo svolazzo, al ricciolo, alla divagazione. Ma oltre alle figure geometriche, altri stilemi sono ricorrenti in questa produzione: la stella a otto punte dei medi, quella a sei punte dei maomettani, il gancio per molti derivazione della Svastica o nelle zone meridionali, si possono trovare raffigurazioni di persone e animali.
I Serramenti: di che farli?
I serramenti sono gli occhi e la bocca della casa, sempre al confine tra l’esterno e l’interno, devono essere resistenti, durevoli e sicuri.
Ecco alcuni consigli in tema di materiali:
Legno: devono essere impiegati legni che abbiano:
1. Un’eccellente resistenza meccanica al fine di sostenere il vetro in modo che non abbia cedimenti strutturali;
2. Una buona stabilità per non incorrere nelle variazioni di dimensione causate dall’umidità e dalle escursioni termiche;
3. Alta capacità di resistenza all’attacco di funghi che sono causa del colore grigio che assume il legno esternamente.
Alluminio: necessita di meno protezione rispetto ad altri metalli ed ha un ottimo comportamento alla corrosione. Materiale facilmente riciclabile, l’alluminio è leggero, dura, ha conducibilità termica. La sua superficie si può trattare con una vasta gamma di rivestimenti, dalle verniciature alle anodizzazioni colorate.
Famiglia Lanzani: Dove la copia è piu bella del vero…
A meda, la famiglia Lanzani, riproduce da ben sette generazioni, con straordinaria abilità artigianale e con eccezionale fedeltà, sedie e mobili di ogni epoca e stile. Pezzi degni di un museo che hanno conquistato anche i decoratori d’oltreoceano.
Per la famiglia Lanzani tutto iniziò con l’arrivo di Napoleone in Italia..Era infatti il 1778 quando la repubblica Cisalpina, alla ricerca di fondi per sostenere le armate napoleoniche, soppresse il Monastero di Meda attorno al quale si era sviluppata, fin dal medioevo, la vita della comunità.La proprietà venne venduta a monsieur Meunier, un ricco commerciante che forniva approvvigionamenti all’esercito. Con lui altre famiglie della nuova borghesia francese si installarono nei dintorni dell’attività artigianale degli abitanti, gia fiorente. Fu allora che quattro fratelli intraprendenti, decisero di dare inizio alla produzione e al commercio di mobili e sedie pregiate.Sono passati quasi 200 anni dall’inaugurazione di quella prima bottega in piazza Volta, oggi in pieno centro storico, e ben sette generazioni della famiglia Lanzani si sono alternate tra sgorbie e legni pregiati. Il piccolo laboratorio è ora un’azienda che dispone di un’area di
Internet: un mezzo indispensabile
Tra gli arredatori, negli ultimi tempi, è emerso che per un buon business, il mezzo di comunicazione cui non si può fare a meno è l’utilizzo del Web. Tutti concordano che l’utilizzo di internet, sia diventato negli ultimi anni molto importante, per farsi conoscere non solo nel proprio bacino d’utenza ma anche nei paesi limitrofi, nelle circostanti regioni, e anche a livello internazionale. I consumatori infatti, che si rivolgono al punto vendita per acquistare la prima cucina, arrivano preparati proprio grazie al fatto che hanno avuto modo e tempo di informarsi attraverso il Web per identificare non solo il negozio a cui rivolgersi, ma soprattutto i modelli, i diversi tipi di materiali, i differenti colori e i design.Il primo passo per le nuove generazioni che vogliono arredare casa, è quello di navigare in rete alla ricerca del modello più consono a soddisfare i propri desideri; successivamente si ricerca il rivenditore più vicino alla propria abitazione, così da poter toccare con mano le proprie scelte; per sfruttare questa nuova tendenza, gli arredatori, utilizzano un tipo di pagina semplice, ma dai contenuti ricchi di particolari, mostrando foto di quanti più mobili possibili delle marche trattate per dimostrare la massima competenza, il passo successivo è quello dare la disponibilità di servizi, come i montaggi gratuiti, i finanziamenti.. e infine, enunciare i dati personali del venditore (orari, numeri di telefono, segnalare la strada più veloce per arrivare al punto vendita) così da facilitare anche i clienti che vengono da più lontano.
Le case degli Italiani
Non è facile per il titolare di un negozio di mobili avere a che fare con molti e diversi stili arredativi presenti sul territorio italiano: stili difficilmente definibili, senza regole, radicati nella prassi, nella sensibilità più immediata condizionati dai diversi contesti, sociali ed economici della penisola.Qui di seguito, azzarderemo un elenco degli stili arredativi presenti nelle case italiane, cominciando dal più diffuso fino ad arrivare al meno comune.
La casa Trasandata: ospita mobili di ogni tipo che assolvono alle funzioni elementari dell’appoggiare, contenere, mostrare, senza alcuna relazione tra loro, ingombri fisici sciattamente collocati qua e là senza progetto di spazio o di luce. Le parti non stanno con il tutto e il tutto è una combinazione casuale o dettata dalla necessità.
La casa della Provincia: nella variegata e contraddittoria provincia italiana, c’è di tutto, come se stili e gusti, storia e cronaca si siano miscelate nel tempo sedimentandosi in arredamenti compositi che mettono insieme localismo, decorazione, buono e cattivo gusto, quadri da pittori della domenica e oggetti da santuario, cineserie, pacchianeria, mercatini dell’antiquariato e modernità… senza alcun filtro culturale se non quello degli oggetti da conservare per motivi affettivi.
La casa del Mobiliere: Solitamente collocata nelle grandi periferie, è arredata soprattutto dalle industrie moderne del mobile, ma anche dal radicato e ricco artigiano locale tecnicamente esperto e culturalmente tradizionalista. E’ il segno banale del benessere acquisito che tappezza le case di pannello truciolare monocromatico o guarda alla borghesia ottocentesca mimando gli stili del passato.
La casa Contemporanea: è segnata dai sistemi diffusi dall’industria del mobile a partire dagli anni ’80, mobili componibili, grandi armadiature, scaffali attrezzati con qualche vetrina e chiusi da qualche antina. Questi sistemi nascono per essere duttili, e finiscono per essere rigidi, ingessando milioni di case dentro schemi geometrici ottusi e monotoni, senza estetica autonoma.
La casa degli Stili: i tradizionalisti che non accettano la semplicità del pannello tecnologico portano in casa gli stili che formalmente imitano il passato riempiendo le case di periferia con volumi ingombranti e irrazionali, con mobili furbescamente massellati che danno false certezze di qualità e si rifanno alla storia dell’arredamento.
La casa Rustica: è la casa degli amanti del legno massiccio, bello da vedere e da toccare, che emana colore, naturalezza e artigianalità. Si tratta di un gusto popolare diffuso ovunque, improntato ad una certa rozzezza o, per i più sofisticati, modellato sulla gentilezza delle forme e dei tenui cromatismi dello stile Country.
La casa Borghese: racchiude tutte le certezze del passato insieme alle sicurezze del presente, cassettoni di varie epoche, vetrine zeppe di cristalli e porcellane, grandi divani pieni di cuscini, accoglienti poltrone, tappeti e quadri, oggetti sparsi ovunque. Tutto sembra imbalsamato tranne che in cucina, dove normalmente la famiglia vive tra acciai e tecnologie avanzate.
La casa di Lusso: in essa si vede la mano dell’arredatore che ha il senso del bello ma che lo ha definito in modo rigido e simbolico, caricando lo spazio con schemi di moda, senza naturalezza, senza intimità, senza vera consonanza con la vita quotidiana di chi abita questi spazi.
Non è facile arredare senza cadere in uno degli atteggiamenti descritti. Non è facile raggiungere una buona sintesi di linguaggi, segni, materiali, stili, tipologie di prodotti. I percorsi progettuali corretti si scontrano con la sfera del gusto, che è soggettiva; mentre la sfera della cultura e della misura è ancora troppo elitaria. Da qui la difficoltà di arredare dignitosamente, nel rispetto delle regole della “Libertà di gusto”. Lo stile senza gusto cade nella ripetitività. Semplicità, eleganza, ricchezza cromatica di materiali, luci e volumi diversi sono ottenibili solo con un progetto che tutto unisce e armonizza anche nei contrasti.E’ questa la missione del rivenditore di mobili, adattarsi alle regole del progetto per definire meglio i gusti dei suoi clienti.
Il negozio d’Arredamento
Che cos’è un negozio d’arredamento? E’ l’espressione di un contenuto immateriale raccontato da prodotti e da schemi ritmici e stilistici di tecnica espositiva. Il negozio è come una poesia, la poesia della casa, composta da canti, sestine, quartine e terzine… a disposizione di chi la vuole leggere, godere, comprare. E’ questa la missione di chi gestisce un negozio di mobili: fare il poeta della casa, scrivere poemi di varia ispirazione stilistica tante quante sono le case che arreda, usando tutte le possibilità creative e suggestive della mente (cultura), dell’intuizione (personalità), della fantasia (creatività), e della tecnica (professionalità).Se è vero come è vero, che i poeti nella millenaria storia della letteratura sono pochi, non si potrà pretendere che siano molti i poeti della casa. Si deve però pretendere che tutti possiedano almeno le tecniche basilari della buona prosa e che parlino una dignitosa “Lingua Arredativa”.Infatti, anche la prosa ha i suoi valori stilistici: può essere chiara, lineare, curata, elegante, ricca, drammatica, discorsiva… C’è spazio, quindi, anche per i prosatori.Mentre non ci dovrebbe essere spazio alcuno per i maneggioni, per i superficiali, per quanti ignorano perfino la grammatica dell’arredamento. Il negozio di mobili deve stupire e ammaliare con sua forza creativa e convincere con la sua qualità discorsiva; deve essere poesia da godere e prosa da capire.Se l’acquisto più importante è quello della casa, subito dopo, nella scala dei valori, dovrebbe esserci – prima dell’automobile, prima del vestiario, prima di ogni bene superfluo – l’arredamento, cioè la membra, le funzioni, il linguaggio della casa. Proprio qui si colloca la responsabilità di un negozio di mobili: dare potenziali linguaggi, estetici e funzionali, a muri senza gesti e senza parole.
Dopo il danno la beffa!!!!!!!
Mio figlio,mentre percorreva a velocità moderata (nella norma consentita) la via che da Torre Colimena porta ad Avetrana,precisamente davanti lo stadio comunale, veniva in collisione con un cane randagio sbucato all’improvviso da dietro un muretto.Nel cadere riportava:lo sfondamento dell’acetabolo con varie fratture, in più una paralisi dello S.P.E.praticamente si è conciato per bene.Accorsi gli amici che abitano li di fronte hanno chiamato il 118 ,dopo circa mezzora sono arrivati, al che per primo si sono prodigati a chiamare i carabinieri (il motivo resto ignoto)che a loro volta molto intelligentemente senza chiedere a nessuno dei presenti che avevano assistito atutto l’accaduto si sono prodigati , a stilare un verbale di eccesso di velocità (70 €)misurato con il loro pensiero(?) in più la decurtazione di 5 punti dalla patente.Mi chiedo, sono io che vado contro corrente?
La Villa Reale di Monza
La villa Reale è uno dei monumenti più importanti della città di Monza.Edificata nel 1777,il 17 aprile,con un dispaccio firmato dall’imperatrice Maria Teresa,nella quale si richiedevala costruzione di”…una casa di campagna nelle vicinanze di Milano che serva di Villeggiatura al Serenissimo Arciduca §Governatore ed ai di Lui Successori nel Governo della Lombardia Austriaca…”.La Villa è costituita da un corpo fabbrica centrale,ha uno schema ad “U” tipico delle ville lombarde del periodo illuminista con doppia facciata,una sulla corte d’onore e una verso il parco,il complesso termina con due corpi avanzati più bassi – La Cappella Reale a sinistra e la Cavallerizza a destra – dai quali si sviluppano alcune ali laterali subalterne,aperte verso l’anticorte,nell’ala sinistra sono collocati il teatrino,le ex cucine,alcuni appartamenti,la rotonda e il serrone.Nell’ala destra vi erano le scuderie e le rimesse.L’Architetto Piermarini espresse in questa villa tutto il suo linguaggio architettonico,ribadendo il carattere di razionalità e colta raffinatezza neoclassica,che si evidenzia già dalla facciata principale della corte d’onore,attraverso la linearità e la semplicità stilistica.L’interno,nella sua parte principale,è composto da un articolato susseguirsi di stanze (600) ,tutte collegate fra loro.Gli ambienti molto fastosi sono impreziositi da eleganti pavimenti,l’arredamento curato con molte tarsie,alcuni dei quali attribuiti alla prestigiosa bottega del Maggiolini.Questi ambienti hanno subito diversi rimaneggiamenti soprattutto nell’800,e molti arredi sono andati dispersi.La parte centrale della Villa e l’ala meridionale destra che ospita gli appartamenti di re Umberto I°,sono attualmente in fase di restauro conservativo.
Modi di vedere
Secondo me c’è una tendenza sempre più forte a scegliere mobili classici.La rinascita del classico,in fondo,non è una sorpresa.Viviamo in un’epoca di continui cambiamenti con tendenze e mode sempre più effimere.Tanto più fuggevole è il tempo,tanto più cresce il desiderio di circondarsi di valori durevoli su cui fare riferimento;ed ecco che nasce la grande opportunità del Mobile classico.Io per esempio sono uno di quelli che da sempre,ero è sono convinto della bellezza senza tempo del classico.
intervista:Nel rispetto della storia
C’è una mente italiana nell’equipe di Rafael Moneo:è Filippo Serra,milanese,che dal 2003 si è occupato a tempo pieno del nuovo Prado.”Gli anpliamenti del passato – spiega Serra – hanno ricopiato il neoclassico di partenza del progetto di Juan de Villanueva,peggiorandone l’architettura.Rafael Moneo ha scelto di abbandonare tale linea,rispettando però la sua storia:l’edificio originale era per metà interrato,e per guadagnare spazio a mano a mano si scavò sul retro.Il giardino pensile ricorda l’antica presenza del Prado,il grande prato che circondava il museo”.”Il ripristino dell’aula basilicale come vestibolo – prosegue sempre l’architetto – ristabilisce invece il senso longitudinale delle gallerie;lo stucco rosso alla veneziana utilzzato per decorarlo è un colore prezioso,simbolo di regalità ma anche dell’età illuministica,epoca cui risale la costruzione”.Per quanto riguarda l’edificio di Los Jeròminos,sootolinea Serra,”Moneo forse avrebbe voluto progettare qualcosa di diverso,di più libero e originale,ma l’opinione pubblica non l’avrebbe accettato.La classica loggia in facciata richiama le colonne della puerta de Velàzquez,l’ingresso nobile di Villanueva”.
Considerazioni
Io penso anzi sono fortemente convinto che a vendere mobili e arredamenti in genere siamo troppi.
Di questi troppi il 99,9% sono commercianti (tutto un programma) lo 0,1% i veri professionisti del settore,che in genere sono figli d’arte.
I commercianti o meglio quelli che forse era meglio chiamarli i menager tuttologi del momento (puro prodotto TV figliocci di quel grande…….figlio di grande donna quale sua Emittenza) sanno tutto loro principalmente come rovinare il mercato,il quale è già allo sbando da diversi anni.
Di queste mie personali considerazioni voi cosa pensate?
A scuola di cucina
I sistemi di informazione che i cucinieri offrono ai rivenditori rappresentano un mondo affascinante, dove le aziende mettono in gioco risorse ed energia per promuovere, sostenere e qualificare l’imprenditorialità della propria forza vendita, con l’obbiettivo sotteso di rafforzare alleanze per affrontare le sfide di un mercato complesso.