La filosofia DORELAN: migliorare la qualità della vita
Dorelan lavora da oltre quarant’anni con la consapevolezza che un sano riposo migliora la qualità della vita. Questo è il principio sul quale ha costruito la nostra storia aziendale, che guida le azioni del presente e verso il quale si orientano i progetti del futuro. Mantenerlo, è un dovere e un obiettivo ambizioso. Ecco perché Dorelan si avvale della collaborazione di importanti Istituti di ricerca italiani e di partnership con i migliori Atenei che, insieme ai propri laboratori, lavorano con l’obiettivo di portare tutto il sapere scientifico al servizio del benessere, per dormire bene e vivere meglio. DORELAN PRODUCE IL SISTEMA LETTO COMPLETO Il riposo che migliora la qualità della vita deve essere personalizzato, in grado cioè di soddisfare le caratteristiche fisiologiche del sonno di ogni individuo; per questo, Dorelan, consapevole delle diverse necessità, produce tutti gli elementi – dal letto al materasso alla rete, dal guanciale agli accessori – dando per ciascuno diverse varianti che, sinergiche tra loro, permettono di creare il proprio sistema-letto completo. Dai contenuti di design per il letto alla tecnicità per i materassi il sistema letto è concepito sulle peculiarità e sui gusti del singolo individuo per un riposo corretto e appagante. LA QUALITÀ DEI PROCESSI PRODUTTIVI “E’ importante scegliere un materasso progettato per la piena soddisfazione del cliente che deve essere qualitativamente valido e rispondere a caratteristiche ben definite e regolamentate. Dorelan ha fatto della qualità dei processi produttivi, un valore irrinunciabile, per questo, i prodotti Dorelan, sono certificati da importanti Enti accreditati che attestano la capacità del suo sistema qualità di adeguarsi alle esigenze del cliente e assicurare costanti controlli in ogni fase di lavorazione con lo scopo di controllare costantemente la qualità.” LA CERTEZZA DI MATERIALI DI QUALITÀ “Non c’è nulla di più prezioso della salute dei bambini. I prodotti Dorelan sono sottoposti a numerosi e rigorosi test per tutelare la salute dei bambini che, specie nei primi anni di vita, sono vulnerabili e hanno bisogno di essere protetti; in particolare, specifiche linee di materassi a marchio Dorelan, hanno ottenuto, con successo, la certificazione Oeko-Tex Standard 100 Classe 1, documento che attesta l’altissima qualità e salubrità dei materiali.” INVESTIMENTI IN RICERCA E INNOVAZIONE LA RICERCA COME VALORE AZIENDALE “Dorelan si avvale della collaborazione di importanti Istituti di ricerca e dei dipartimenti delle migliori Università italiane. I laboratori dell’azienda sono monitorati e controllati da accreditati partner esterni che ne verificano e avvalorano il risultato scientifico. E’ una scelta senza dubbio impegnativa sia in termini economici, sia di tempo che garantisce al cliente una sperimentazione rigorosa. I prodotti Dorelan nascono dalla più avanzata ricerca e dalla competenza di professionisti esperti del sonno con l’obiettivo di portare tutto il sapere scientifico al servizio del riposo e del benessere.”
L’Architetto delle case-ritratto
A Saint-Gilles, in rue Américaine 25-23, vi è una casa che sintetizza mirabilmente l’opera e gli ideali di un architetto considerato tra i maggiori rappresentanti dell’ Art Nouveau, Victor Horta. Progettata e costruita tra il 1898 e il 1901, la casa presenta due distinte facciate che corrispondono rispettivamente all’abitazione e allo studio-laboratorio dell’architetto belga. In questa, come del resto nelle altre case da lui realizzate, ogni dettaglio, anche della decorazione interna e dell’arredamento, è previsto dal progettista che concepiva la casa come un insieme unitario che deve riflettere fedelmente la personalità, le convinzioni e i modi di vita degli abitanti. Nascono cosìle inimitabili, originalissime case-ritratto di Horta. Vissuto in Belgio’ dal 1861 al 1947, Victor Horta fu uno degli inventori e degli interpreti più originali dell’architettura Art Nouveau. Caratteristica principale del suo stile è la linea “en coup de fouet”, la sferzata che ritroviamo in ogni dettaglio decorativo ispirato al mondo vegetale, un mondo dove però non esistono fiori, ma solo fantastiche foglie, steli e liane guizzanti. Altro tratto distintivo della sua architettura è lo sforzo costante di progettare e realizzare case estremamente personalizzate che devono essere non solo in funzione di chi le occupa, ma ne devono rappresentare il ritratto. La sua clientela è la nuova borghesia industriale che negli stili del passato non può trovare nulla di adeguato al suo bisogno di affermazione, al suo stile di vita e alla sua fiducia nel progresso. Horta avvertì già all’inizio della sua carriera presso lo studio dell’architetto Balat questa inadeguatezza e lavorò alla creazione di un nuovo linguaggio decorativo. Da Balat apprese a utilizzare il ferro, che per la prima volta fa il suo ingresso nelle case delle classi sociali più elevate, mentre precedentemente era confinato all’architettura industriale o comunque considerato un materiale povero.
Al ferro si combina poi il vetro, che lascia penetrare negli interni un altro vitale ingrediente dell ‘architettura di Horta, la luce. Egli rompe con la tradizione anche nel disegno delle facciate, dove ogni simmetria è abolita per far posto a grandi aperture concepite in connessione alle esigenze di luce degli interni, e la monotonia lascia il posto a un ritmo fantastico e gioioso. Nella pagina d’apertura: parte delle due facciate di casa Horta, a sinistra quella dell’abitazione e a destra quella dello studio. La prima è caratterizzata dai balconi intercalati da una veranda a bow-window, mentre l’altra è più semplice, con grandi vetrate per dare agli ambienti di lavoro il massimo di luminosità. Il rivestimento delle facciate è in pietra bianca, un materiale molto amato da Horta. Le parti in ferro non sono abbondanti come in altre realizzazioni di questo stile, limitate ai balconi e alle inferriate. Nella pagina precedente: un angolo dell’abitazione particolarmente intimo e accogliente, illuminato da un’ampia finestra e arredato da armadi in frassino e da una dormeuse in stile liberty.In questa pagina: l’ambiente forse più significativo della casa-museo di Horta, la sala da pranzo con annessa una luminosa veranda. Il rivestimento delle pareti è realizzato con mattoni smaltati di bianco che fanno risaltare il color miele del frassino utilizzato per i serramenti e per i mobili, ad eccezione del tavolo e delle sedie di disegno piuttosto semplici che sono in quercia. Il pavimento è un mosaico di marmo, con un parquet che, sotto il tavolo, fa le veci di un tappeto ben evidenziato da un triplice contorno in frassino, rame e mosaico. Nella veranda, tra ricordi dell’architetto che ci riportano all’attuale destinazione a museo della casa, alcuni mobili che Horta inviò all’esposizione internazionale di Torino del 1902. L’ultima immagine è dellucernaio sopra la scalinata principale, considerato una delle più suggestive creazioni di Horta.
Come gli esternianche gli interni rispondono ai medesimi criteri di novità, esuberanza decorativa, personalizzazione, utilizzo di materiali inconsueti, adozione di ardite soluzioni tecniche, libertà da ogni schema mutuato dal passato e privo di motivazioni necessitanti. Un esempio a questo proposito molto significativo è la sua casa-studio di Saint-Gilles, ora sede di un museo a lui dedicato, di cui in queste pagine vediamo due ambienti e il lucernario della scalinata. Anche da queste poche immagini si può notare come ogni particolare della struttura, della decorazione e dell’arredo concorra a creare un insieme stilisticamente unitario. Le sue case sono sue dai muri ai mobili, dai serramentii alle vetrate fino ai tappeti e alla decorazione delle pareti. E questa cura del risultato estetico non andava disgiunta dalla considerazione per gli aspetti più propriamente utilitaristici, anzi, la caratteristica e la qualità più evidente di questo architetto consiste appunto nell’ingegnosa compenetrazione di funzionalità ed estetica.
Fernando Saracino
Il salotto trasformabile
Una delle caratteristiche più interessanti e anche più curiose del salotto del nostro tempo è costituita dalla trasformazione delle poltrone e dei divani in comodi e morbidi letti che all’occorrenza sonò della massima utilità, perché vengono utilizzati specialmente nei momenti d’emergenza, sia che si tratti di un ospite inatteso eppur gradito, oppure di uno stesso componente della famiglia per il quale non ci sia la possibilità di destinargli una stanza propria; ed ecco che il mobiletto si trasforma in modo provvidenziale e ce lo ritroviamo a portata di mano nel soggiorno, in salotto e dovunque ci sia lo spazio per contenere un divano o una poltrona adatti a tale uso.
È noto che fra i mobili dell’arredamento moderno, quelli che maggiormente hanno subito una profonda modifica nella loro intima struttura, a causa delle mutate condizioni di vita, sono le sedie, i divani, le poltrone, il letto.
In questo caso si tratta di vere trasformazioni reazionarie che sovvertono l’ordine delle formule tradizionali poiché ci troviamo di fronte a strutture che niente hanno a che fare con la tradizione, dove tutto procede secondo rigidi canoni di disciplina infrangibile, mentre nel sistema moderno entriamo in un campo di libertà creativa inaudita colla quale si raggiungono risultati di un’audacia senza pari qual’è appunto l’inserimento di un letto in una poltrona o in un divano.
Niente di tutto ciò si è mai visto nel passato. Eppure l’uomo ha da sempre manifestato il suo bisogno inalienabile di ricerca della comodità, che costituisce il carattere primario dell’arredamento odierno.
Anticamente prevaleva invece la ricerca estetica, per cui anche i sedili, che sono il mezzo più semplice con il quale si esprime tale qualità, non erano affatto comodi, tutt’altro, ed in certi periodi si è trattato di assidersi direttamente su oggetti di pietra e di nudo legno, e questo in epoche più recenti quando le usanze si erano un po’ più mitigate.
Una certa nota di praticità la ritroviamo nell’epoca classica romana quando alcuni divanetti chiamati Kline, servivano nei banchetti per mangiare e per dormire.
Da una statistica sull’evoluzione di questi mezzi a sedere, risulta che il Seicento è l’epoca in cui la poltrona assurge alla sua qualità di mobile fine a se stesso, mentre con il Settecento abbiamo l’impostazione del salotto classico composto del gruppo divano-poltrone e tale formula non è più tramontata ma si è mantenuta sino ai nostri giorni, quando si è prodotta ancora quella trasformazione singolare che è il soggetto del nostro studio.
Le nuove forme dei sedili hanno oggi una struttura atipica e pertanto sono adattabilissime ai più svariati ambienti dal tradizionale, al classico, al rustico, ed esse non inibiscono affatto il gusto personale ma lo rinvigoriscono e valorizzano.
La portata rivoluzionaria di questi mobili è grandissima perché si riesce ad ottenere da un solo esemplare due funzioni e due fisionomie. Così nel divano-Ietto e nella poltrona-Ietto abbiamo due componenti in uno, che senza mutare la loro forma nascondono nel sedile che si ribalta il materasso già pronto per qualunque occasione.
Ne risultano quindi il posto a sedere e quello a dormire quando se ne presenti la necessità ed in questo caso il letto d’emergenza, ribaltabile e trasformabile, è di un aiuto provvidenziale.
Il salotto così trasformato, in una maniera prettamente moderna e dotato di grande praticità, ha ottenuto larghi consensi di pubblico e di stima e per soddisfare alla richiesta sempre crescente sul mercato le ditte specializzate sono in grado di fornire modelli sempre più perfetti, sempre più adatti ed adattabili ad ogni ambiente, a qualunque esigenza anche la più complessa.
Come esempio del nostro argomento, vale la produzione della spett. Ditta Saracino Arreda in Avetrana, nella quale appare in maniera efficace la funzione decorativa oltre che pratica dei divani e delle poltrone trasformabili, trattata in forma quanto mai moderna, . dove la bellezza della linea, del rivestimento, della fantasia rivelano pur sempre l’inconfondibile spirito del gusto italiano.
Fernando Saracino
Con la spontaneità, l’intenzione
È sorprendente constatare come le vecchie costruzioni di origine spontnea e popolare siano quasi sempre dotate di un’armonia, tanto rara invece nella maggior parte degli edifici più recenti in cui Il cemento ha preso il posto della pietra e una professionalità spesso poco attenta alle ragioni dell’estetica s’è sostituita alla pratica fantasiosa, dei muratori di una volta. E così che un vecchio fienile con stalla annessa può agevolmente essere trasformato in casa d’abitazione, ricca all’interno di spazio e di luce e all’esterno perfettamente inserita nel paesaggio collinare. Nonostante l’architettura originale non abbia subito sostanziali modifiche, la costruzione si presenta ora con un carattere di grande ordine e pulizia dato dalla creazione di un vero e proprio giardino accanto alla casa.
L’interno, per assumere aspetto e funzionalità di casa d’abitazione, ha dovuto es¬sere reinventato quasi per intero, seguendo però i sug¬gerimenti offerti dalla strut¬tura e dal luogo in cui essa sorge. Così i pavimenti del piano terra adottano un cotto fatto a mano, i vecchi muri perimetrali e quelli di recente realizzazione sono stati uni formati con un ru¬stico intonaco bianco e i soffitti rivestiti con perline d’abete su cui spiccano travi che appartenevano già alla struttura originale. In ognuno dei locali al piano terra è stato poi ricavato un camino.
La dislocazione delle diverse funzioni è quella consueta delle case su due livelli sia di ieri che di oggi: il piano terra per il giorno e il primo piano per la notte. Il corpo antistante a un solo piano ha consentito poi di dare notevole respiro alla prima zona e, tra gli ambienti che la compongono, soprattutto al soggiorno che ha dimensioni grandi e accoglienti. C’è però da notare che la casa si inserisce su un terreno scosceso, per cui su un lato risulta seminterrata con il primo piano al livello della strada di accesso. Nella zona a ridosso del terrapieno è stata ricavata una taverna; completa il trittico della zona giorno una cucina con ampie aperture su due lati, a mostrare un gradevole insieme di vecchi mobili, utensili e attrezzature. Già negli altri ambienti situati al piano terra si può avvertire un rigore stilistico ispirato ad ambientazioni rustiche, ma vi è anche in essi qualche concessione al superfluo, soprattutto sotto forma di piccole collezioni che narrano sulle pareti brevi storie di oggetti un tempo comuni. Nelle camere l’ade¬sione a vecchi modelli di arredamento rurale è più fedele e l’impronta si fa decisamente sobria, non austera perché c’è spazio ad e¬sempio per un colpo di colore come quello dato dalla testi era in ferro battuto. Ciò si deve in parte alla mode¬sta disponibilità di spazio sia in pianta che in altezza, ma anche alla scelta di sod¬isfare in questi ambienti un’estrema esigenza di rigore che il bianco dei muri e il legno dei mobili ben rappresentano.
La Casa Classica vista da Silvano De Pietri
Silvano De Pietri è nato nel 1944 a Parma dove vive e lavora.
Dopo alcune esperienze nella scenografia e nella pubblicità, di cui continua ad occuparsi, dal 1972 si dedica alla pittura.
I primi ad interessarsi del suo lavoro sono i critici Gianni Cavazzini e Roberto Tassi, che lo presenta nella sua prima personale alla Galleria Eidos di Milano.
“Il giovane artista intraprende l’analisi realistica di un tema unico, ripetuto e rappresentato ossessi vamente: la figura umana forzata in innumerevoli torsioni, eretta, e assopita, spiata «vojeuristicamente» in ambienti vuoti, permeati dalla solitudine immersa in una specie di emulsione di blu, azzurro e grigio che avvolge e che suscita una sensazione fabulosa, quasi irreale” (R. Tassi).
“I silenzi, le penombre, le rarefatte atmosfere” (M. De Micheli) dei primi anni di lavoro, assieme all’attenzione cruda per il particolare, un ginocchio, un fianco, un’ombra fra le .scapole rimangono nella ricerca di De Pietri.
Dal ’75 in poi cambiano i temi, ma non i modi e i mezzi: alle fattezze e alla disgregazione del tessuto umano si sostituiscono i bagliori del metallo degli “oggetti macchine”. Questi lavori finiscono per essere iperreali tanto da divenire rappresentazione di temi onirici che slitta¬no dalla banalità del quotidiano nell’universo surreale dell’inconscio. Dalla raffigurazione del dramma violento ed esteriore dei corpi pallidi e contratti, De Pietri induce all’angoscia sottile e più nascosta dei particolari meccanici, risvegliata da lame acuminate, minacciose, che altro non sono se non elementi di un innocuo apriscatole. Ma l’enigma continua nei lavori presentati alla fine dell’81 alla Gal¬leria Consigli di Parma, nei quali un’oggetto di metallo, come uno strumento di misurazione con graduatori, viene ripetuto e moltiplicato in uno spazio bianco e asettico, mostrando innumerevoli aspetti, senza ripetersi e, anzi, potendo far pensare a forme diverse, ispirate da diversi modelli” (V. Sgarbi). La tecnica preferita dall’artista diventa la grafite su carta riducendo spazio e colore al rigore concettuale del bianco e grigio, ma riscoprendo la morbidezza dello sfumato, del chiaro-scuro alla maniera dei classici. Gli ultimi lavori, che saranno tema di un’altra mostra alla Galleria Consigli, raffigurano oggetti irriducibili al quotidiano, entità irriconoscibili, piccole forme, ormai prossime all’astrazione, che dallo spazio limitato del supporto si espandono nella scenografia di un ipotetico ambiente teatrale come ar¬chitetture galattiche di un immaginario futuro.
Si erige un tempio all’Idea della misura e del disegno. Una struttura classica, ma con lo spessore di una scenografia da teatro. L’evidente finzione della scienza del costruire gioca a favore dello strumento, un
macro-cornpasso a guardia della soglia, alle cui spalle non si intuiscono i limiti di un interno, ma lo spazio nebuloso e sconfinato dell’immaginario.
L’Illuminismo artistico di Maria Teresa d’Austria
Che l’Italia in certi periodi della storia abbia maggiormente importato che esportato canoni estetici per l’arredamento è un fatto più che confermato se si tengono in considerazione tutti i vari “passaggi di proprietà” che il nostro Paese ha subito quando, prima dell’unità, era diviso in piccoli staterelli continuamente contesi fra le grandi potenze europee. A seconda delle varie zone d’influenza perciò il Settecento e la prima metà dell’Ottocento per esempio hanno visto Francia, Spagna e Austria avvicendarsi al trono del costume e dell’arte impostando un modo di concepire la vita quotidiana, e anche l’arredamento, più o meno recepito dalla mentalità italiana, con maggiori favoritismi e consensi per il gusto francese che per quello spagnolo. Il discorso per l’Austria si differenzia un pò dagli altri due, poiché, considerando che il mobile stile Maria Teresa che presentiamo, oggi realizzato da un’azienda di Bolzano, la Selva, bisogna non solo tener presente che nell’epoca dell’illuminata sovrana il capoluogo alto-atesino faceva ancora parte integrante dell’Impero austriaco, ma che questo governava anche sul Ducato di Milano, diffondendo prima solo nella zona fra il Ticino e l’Adda, poi anche nella vasta Repubblica di Venezia, le tipologie e i caratteri formali sobri e rigorosi dell’artigianato d’oltralpe. Se comunque il carattere fantasioso dell’italiano recepiva qualsiasi tipo di messaggio creativo per modificarlo e farne qualcosa che rispecchiasse maggiormente la sua sensibilità, con l’assolutismo sì, ma illuminato di Maria Teresa che creò le condizioni per una rinascita intellettuale e si identificò con un periodo culturale molto vivace, si spianò il terreno anche per far accogliere stimoli più propriamente legati alla vita di tutti i giorni. Bisogna dire inoltre che un tipo di mobile quale per esempio il trumò a tabernacolo dell’immagine e in ge nere una tipologia settecen¬tesca raffinata ma senza eccessivi orpelli poteva ben corrispondere al gusto dell’Italia settentrionale che invece, a contatto con il fasto del mobile francese, si trovava necessariamente a doverlo riadattare a moduli più semplicistici sfrondandolo e alleggerendolo dell’esuberante decorazione. Così il trumò in questione nella versione originale si presenta nella più raffinata moderatezza mitteleuropea, ma con ben definiti gli stilemi artistici, primo fra tutti l’intarsio, del XVIII secolo. Come mobile contenitore si caratterizza per l’estrema funzionalità, dotato di ben 20 fra cassetti e cassettini, di cui tre grandi nella base, due a delimitare la ribaltina che ne scopre altri quattro più un vano a giorno e nove nell’alzata che perimetra su tre lati l’antina centrale con cimasa a cappello. Sostenuto da quattro piedini a cipolla, il pezzo è realizzato in tiglio od ontano massello placcato in radica di castagno e noce, con filetti in acero. La decorazione, oltre ai filetti intarsiati che segnano la posizione dei copriserratura, della maniglie ad anello, dei pomoli a rosetta e i pannelli della ribalta e dell’antina, si avvale del delicato disegno della cimasa che nelle due parti laterali termina internamente a ricciolo
Amicizia di eleganze ottocentesche
Un intreccio di tendenze post-imperiali è ciò che maggiormente caratterizza questo comò realizzato da Mastro Capellini di Rottofreno. Come per tutte le espressioni artistiche che hanno lasciato un’indelebile impronta in campo stilistico, anche lo stile Impero, così determinante per l’Ottocento nella sua proposta di canoni essenzialmente nuovi, ha suscitato reazioni opposte nel periodo immeditamente successivo. Ma in questo caso il passaggio da uno stile all’altro è stato mediato dallo spirito insito agli stilemi del XIX secolo: uno spirito che ha stimolato un gusto per il “revivalisrno” al punto tale da spaziare nelle epoche stilistiche e assemblare elementi diversi in una rivisitazione originale. La peculiarità nasce perciò da un’elaborazione che unisce l’imitazione all’eclettismo, realizzandosi compiutamente in creazioni particolari per le loro caratteristiche di cosciente ricapitolazione e coerente montaggio delle parti. La considerevole rottura dell’Impero con gli stili che l’avevano preceduto viene così ridimensionata e riportata a livelli di riconciliazione con il passato più recente. C’è quasi un sincronico procedere di pari passo degli eventi storici dell’epoca con le tendenze stilistiche in campo arredativo: come la rivoluzione francese e il “cesarismo” napoleonico avevano offuscato e travolto i principi etico-politici dei governi assoluti, così lo stile Impero appariva degno delle grandi idee rivoluzionarie del 1789.
Con l’età della Restaurazione le forze della conservazione ripresero potere e ristabilirono l’assetto precedente la bufera napoleonica e allo stesso modo nella storia dell’arredamento si fece sentire un ritorno al Settecento e oltre, giungendo alle soglie del Rinascimento. II periodo della Restaurazione, che vede il riaffermarsi dei Borboni sul trono di Francia, con Luigi XVIII prima, seguito da Carlo X e infine Luigi Filippo, ristabilisce, insieme poi al Secondo Impero, dal 1852 al 1870, forme e decorazioni dei
secoli passati. La reazione si fa soprattutto evidente nel rifiuto delle linee diritte, delle superfici piane, degli angoli vivi, dell’assenza di modana¬tura. La rigorosità delle forme prevalentemente cubiche di cassettoni e sècretaire la¬scia posto ad una maggior gentilezza e sinuosità: le linee tornano ad addolcirsi e ad ar¬rotondarsi, le strutture si fanno meno spigolose e slanciate per appesantirsi leggermente, assolvendo ai compiti di robustezza e solidità pretesi dalla borghesia del tempo.
Nel comò che presentiamo questi elementi trovano pie¬no riscontro: il mobile è rea¬lizzato in radica di olmo, che con le sue marezzature crea un gioco di chiaroscuri di notevole effetto. Il tema del ri¬quadro sottolinea le varie parti, incorniciando sia i cassetti, sia i pannelli laterali con l’utilizzo dei toni più caldi del palissandro, legno particolarmente apprezzato nel periodo della Restaurazione e del Secondo Impero. Una leggera filettatura in un ‘essenza più chiara pone in maggior evidenza il piacevole contrasto tra la tonalità ambrata della radica e quella più decisa del palissandro. La struttura è modulata da un continuo contrapporsi di spazi concavi e convessi, che ammorbidiscono la solidità e l’imponen¬za del pezzo: a ciò concorrono il frontale leggermente avanzato e i pannelli laterali rientranti, messi ancor più in risalto dalla definizione delle colonnine. Queste ultime, insieme all’uso del bronzo nelle maniglie dei cassetti, offrono chiaramente spunti a collegamenti con lo stile Impero, ma anche al Rinascimento, che tanto ha sfruttato i motivi architettonici delle civiltà classiche. Ed è forse l’armoniosità delle forme e la solenne robustezza della struttura a riportarci alle ispirazioni classicistiche del Cinquecento, avvalorate anche dai piedini a cipolla che sostengono il mobile. La brillantezza della lucida tura impreziosisce il pezzo, apportando un’ulteriore nota di eleganza.
Toscana, culla di civiltà
In un’epoca in cui architettura e arredamento si compenetrano a tal punto da seguire le stesse linee di tendenza, nasce questo modello di credenza, ricostruita su ispirazione di esemplari del Quattrocento toscano dalla Bottega Artigiana Tarpac di Lucca. Forme create in Toscana e reinventate in Toscana, che nel Rinascimento detiene la palma del primato in tutti i campi dell’arte: arte che in questo periodo diventa elemento di prestigio più di quanto non lo sia stata in passato, provocando una sorta di vivace emulazione e innestando uno spirito di competitività tra i maggiori centri culturali italiani. Non a caso perciò la Toscana diviene anche la culla del mobile nazionale, vantando, sin dai primi del XV secolo, un’organizzazione esemplare nell’arte del legno, installatasi già nel Trecento. La vivacità intellettuale degli architetti del tempo influenza in modo determinante gli artigiani del mobile, che traducono in legno forme pensate per la pietra. L’ebanisteria toscana, e in particolare quella fiorentina, esce dai confini diffondendo un nuovo linguaggio stilistico attraverso le opere di figure dominanti del secolo quali Giovanni di Matteo e i fratelli Da Maiano, architetti di Firenze ricordati dal Vasari anche per le loro qualità di maestri intagliatori. Non solo valica ambiti toscani, ma riesce a conquistare le corti europee, quella di Francesco I, di Elisabetta d’Inghilterra.
Le esigenze di rinnovamento spalancano le porte all’Evo Moderno in ogni campo, uscendo dall’immobilismo me-
dievale; anche l’arredamento, nell’arco di pochi decenni, subisce un ‘evoluzione più rapida di quanto non abbia avuto nei secoli precedenti: la libera ispirazione all’antichità romana in campo formale si sposa a nuove esigenze di comodità in campo funzionale. Il mobile della tradizione gotica• viene lentamente soppiantato per lasciar posto a forme più armoniose, meno imponenti, più raffinate nell’uso della decorazione. È ovvio che non esiste una netta frattura tra il mondo di prima e quello di poi: nel pezzo che presentiamo, per esempio, compare ancora l’uso decorativo-funzionale del ferro battuto, nelle toppe, nelle maniglie, nei cardini, retaggio dell’abbondante utilizzazione medievale di questo materiale, pur vagliato da un diverso approccio al senso ornamentale. Ma in generale, per quanto riguarda le forme, le funzioni e le strutture, i nuovi mobili si svincolano dalla rigidità formale e dalla mancanza di specializzazione tipologica caratteristiche del Medioevo.
Il mobile va ad assumere un aspetto fondamentale dell’abitazione, connubio di funzione, architettura, ornamento, espressione di un nuovo modo di vivere e di mettersi in relazione con le cose della quotidianità. La borghesia urbana e la società delle corti principesche sono i due protagonisti della nuova civiltà che favoriscono un’arte incline ad un’eleganza aulica ed introducono un nuovo concetto di vita: con il venir meno della religiosità di tipo comunitario e la laicizzazione della vita associata, l’aristocrazia tende più spiccatamente a godersi le ricchezze acquisite piuttosto che a devolverle ad istituti ecclesiastici, considerando la magnificenza della propria vita privata un elemento di prestigio almeno altrettanto valido quanto una prova di devozione. Da qui ha luogo la ricchissima produzione di oggetti d’arte e di artigianato creati per abbellire la propria casa, prima ritenuta più come luogo di ritiro e non come teatro di vita attiva, fulcro delle ambizioni.
Per quanto riguarda il modello specifico che analizziamo, denominato “Carolina”, è da notare l’accuratezza dei particolari, le dolci linee ogivali della pannellatura sagomata, la disposizione e la decoratività degli elementi in ferro battuto a mano, l’importanza della zoccolatura, la calda tonalità del legno masse Ilo naturale di castagno, uno dei legni preferiti dagli artigiani toscani rinascimentali per la sua malleabilità. Tutti i pezzi sono montati, rifiniti e scolpiti interamente a mano da artigiani che rievocano nelle loro tecniche la più pura espressione dell’arte popolare.
Nel XV secolo adibita ad arredare cucine e dispense, la credenza diverrà solo in un secondo tempo elemento da ospitare in sala da pranzo, assumendo una veste più elaborata e le funzioni pressoché odierne. Inizialmente era dèstinata a contenere il vasellame e a fungere da piano di appoggio per le portate prima che fossero servite in tavola. Per creare un’ambientazione autenticamente quattrocentesca, la Tarpac ha arricchito la collezione con terracotte e ceramiche da tavola e da parete, ferri battuti, lampade, candelieri, attrezzi per camino – e tavole dipinte a mano, il tutto aderente all’epoca e allo stile dei mobili
Architettura spontanea
In varie parti della Sardegna, e soprattutto nella fascia che occupa l’area nord-occidentale, esistono ancora esempi di capanne isolate o di villaggi di capanne che sorgevano vicino ai nuraghi, o almeno in prossimità di zone nuragiche. Queste costruzioni risalirebbero ad un’epoca precedente agli stessi nuraghi e sono comunque da porsi tutte al di qua del I millennio a.C.
V na struttura esterna pressoché circolare, del diametro di undici metri circa, racchiude un vano, anch’esso pressoché circolare, del diametro di sei metri circa, con ingresso obliquo e strombato volto a sud-est, così studiato per meglio godere dei raggi del sole; l’altezza residua del muro a secco è di circa un metro e mezzo, mentre un sostegno centrale regge un tetto conico di frasche o una falsa volta con filari di piccole lastre che doveva ispirarsi alla tholos del nuraghe, la tipica copertura a volta ogivale. Anche il sistema di muratura, costituito da grossi blocchi di pietra allo stato rozzo o parzialmente squadrati, senz’altro legame che il peso stesso dei materiali, è comune a quello del nuraghe. Ma mentre le capanne, riunite in villaggi, svolgevano funzione abitativa, i nuraghi, come è stato ormai accertato, erano costruzioni di carattere militare. L’etimologia del termine è alquanto controversa: alcuni studiosi sostengono che “nuraghe” sia la corruzione dialettale di “muraglie”, altri la associano alla parola “nurra” che ha il significato di “torre cava”, “mucchio cavo”, da cui ha poi preso il nome quella zona della Sardegna nord-occidentale ricca di nuraghi, nonché la città di .. Nora. Le svariate interpretazioni dei nuraghi, antecedenti all’esplorazione scientifica me
diante scavi, attribuiva a queste costruzioni le più contrastanti funzioni: l’opinione più antica era che, come le tholoi micenee, si trattasse di tombe; in seguito furono considerati edifici religiosi, templi sacri dove il sacerdote capo tribù compiva sacrifici e adorava le divinità, fino alle interpretazioni più bizzarre secondo le quali gli antichi sardi avrebbero dormito sul terrazzo dei nuraghi per difendersi dalla zanzara anofele malarica; recentissima è, inoltre, la macabra versione di “torri del si lenzio”, simili a quelle indiane, ove venivano posti a consumarsi i cadaveri prima della loro definitiva sepoltura.
Il fatto, invece, che si tratti di opere militari, rocche forti dell’ aristocrazia e di gruppi relativamente privilegiati o incaricati di compiti particolari, è testimoniato sia dalla loro posizione strategica, di solito dominante una valle, un passo, una fonte, sia dal sovrastante terrazzo che veniva a costituire un mezzo di difesa attiva, da cui era possibile fare uso di armi e dei vari sistemi tramandati si fino all’epoca medievale.
Ci siamo soffermati su questi due aspetti di architettura spontanea, la capanna circolare e il nuraghe, l’uno diretto discendente dell’ altra, per constatare come questi sistemi edilizi si conservino e si tramandino nel tempo a distanza di secoli. Ancora oggi in Sardegna pastori e contadini costruiscono capanne con volta ogivale chiamate “pinnetas”, simili per materiali e struttura alle opere dei loro progenitori. Con le parole di Bernard Rudofsky, cultore dell’architettura spontanea, diciamo che “l’architettura vernacola deve la sua spettacolare longevità ad una ridistribuzione costante di conoscenze duramente conquistate, incanalate Questa continuità di stile è dovuta a vari fattori, tra cui, primo fra tutti, è l’affidarsi a materiali edilizi locali; inoltre, la conformazione insulare del territorio contribuisce a salvaguardare qualsiasi caratteristica indigena, compresi i tipi di alloggio. Se nel passato ammucchiare pietra su pietra non era né un mestiere, né un’arte, ma il risultato di un’irreprimibile necessità, commisurata alle esigenze umane, oggi quest’abitudine si è radicata, incurante delle mode, con un’evoluzione nel tempo quasi impercettibile.
Tutto ciò è espressione tangibile di un modus vivendi, di una concezione della vita che attinge alle radici culturali di un popolo. E se qualcuno attribuisce al villaggio di capanne un aspetto urbanistico sparso e disarmonico è perché erroneamente giudica l’architettura spontanea in base a criteri accademici: pur presentando un aspetto caotico e irregolare, può infatti seguire una sorta di armonia da ricercare in altri elementi che non siano quelli dogmatici. Un po” come l’architetto inglese Inigo Jones che, in un trattato sull’antico monumento megalitico di Stonehenge, pubblicato nel 1655, affermò che gli edifici degli antichi bri¬tannici non possedevano per nulla né ordine, né simmetria, e tanto meno grazia e decoro, esprimendo così la sua scarsa stima per le reliquie architettoniche indigene. Bisogna considerare che a volte la mancanza di simmetria è dovuta al fatto che i costruttori non seguivano piani pro-
grammati in precedenza, come fa l’architetto di professione, ma che talvolta gli edifici venivano modificati successivamente con l’aggiunta di volumi del tutto irrelati, sempre per soddisfare esigenze pratiche. Su questo argomento si è espresso anche Gillo Dorfles in una recensione apparsa di recente su un quotidiano milanese: la dialettica tra centralità e decentramento, tra simmetrico e asimmetrico era qui riferita non solo all’immagine architettonica, ma alle arti visive in genere ed estesa anche alla cultura e ad ogni attività umana. L’asimmetria, la man¬canza di equilibrio e di “perfezione” viene solitamente associata alla stranezza, se non addirittura alla dissolutezza; l’assenza di una rigorosa disciplina formale fa vedere incolte e rozze le case dei contadini e dei pastori. È indubbio che molte grandi civiltà artistiche si sono basate essenzialmente su canoni di centralità, di simmetria e di equilibrio, categorie da sempre ritenute equivalenti di situazioni positive in ogni campo del sapere, sia scientifico, sia artistico o culturale. Già con la rivoluzione barocca prima e con i più grandi impressionisti poi iniziò a farsi strada una concezione visiva che deviava dalla prospettiva tradizionale, privilegiando forme oblique, decentrate, appiattite, allungate. Questi graduali rivolgimenti ci stanno portando forse ad un cambiamento della visione del mondo e dell’arte che ci permetterà di valutare le opere pittoriche, musicali, architettoniche e così via, basandoci su canoni estetici non più sotto messi a dogmatismi schematici, ma lasciandoci la libertà di cogliere il fascino e la suggestività che esse emanano: anche l’architettura spon¬tanea, pur nella sua rozzezza, si rivela un felice connubio di istintività e armonia, al di là della pregnanza etnologia che la investe
Riamare il Liberty
L’immagine che presentiamo si riferisce alla fedele replica di una vetrina del 1905 disegnata dall’architetto Ernesto Basile, qui realizzata in acero dalla Medea di Meda. Basile, nato a Palermo nel 1857 , aderisce all’Art Noveau negli ultimi anni del secolo, quando le prime clamorose esperienze di Horta e Van de Velde erano già realizzate e divulgate in tutto il mondo. Nel 1898 a Palermo comincia, infatti, l’arredamento del Grand Hotel Villa Igea e pochi anni più tardi, nel 1906, costruisce il Villino Fassini, che può essere con¬siderata la sua opera più completa.
L’Art Nouveau, proponendosi come arte collettiva che diviene espres¬sione di un modo di comportarsi, influenza qualsiasi campo della produzione, dall’architettura all’arredamento, dall’abbigliamento all’oggettistica di uso quotidiano. Con le parole di William Morris diciamo che “L’artista non si accon¬tenta di costruire nell’ideale. Egli si occupa di tutto ciò che ci interessa e che ci tocca … L’arte si mescola a tutte le cose e rifà costantemente la nostra intera vita per renderla più elegante, più degna, più allegra e più sociale”. L’Art Noveau trova il suo campo d’azione più fertile nell’arredamento, che non è fatto solo di pezzi addossati alle pareti: l’inquadratura, lo sfondo, diviene elemento essenziale, fa tutt’uno con il mobile, scoprendo le forme negative, come afferma Van de Velde: “Il massimo di equilibrio e chiarezza spirituale sarà reso possibile solo dalla scoperta del valore estetico che spetta non solo ai contorni positivi, ma anche a quelli negativi degli oggetti… ogni mobile, ogni oggetto, oltre al proprio profilo che si staglia o sulla parete o nell’aria delinea anche su questo sfondo un’altra forma uguale e contraria, che si adatta perfettamente alla sua, e questa forma negativa è altrettanto importante che quella dell’ oggetto stesso, e rende possibile un giudizio sicuro sulla sua bellezza”. Anche in questo mobile-vetrina di Basile si riscontra, oltre alla sagomatura fortemente caratterizzante, l’utilizzo di forature perimentranti l’alzata che fanno riapparire lo sfondo all’interno della figura, risolvendo il conflitto tra ambiente e mobile in una “linea di osmosi”. Nel mobile Liberty rifluisce il gusto della linea, della trasparenza, della rievocazione delle strutture del mondo vegetale realizzata a vari livelli di astrazione. L’elemento caratteristico della linea Art Nouveau è l’andamento sinusoidale, che, per un processo di sdoppiamento, tende a traslarsi simmetricamente in ripetizioni ritmiche. Le linee curve dell’alzata della vetrina, vengono, infatti, riprese nella conformazione delle ante nella parte inferiore che, per un gusto della trasparenza tipicamente Liberty, vengono ulteriormente alleggerite da pannelli in vetro colorato. Anche nei fregi e nelle bordature prevale la successione lineare e la simmetria traslatoria. L’attenzione al dettaglio naturalistico porta all’utilizzo decorativo di forme vegetali e animali attraverso un processo di astrazione e stilizzazione, generando a volte incroci ed innesti di diversi modelli naturali. Qui per esempio, le decorazioni floreali intagliate e scolpite vengono affiancate da specie di piedini zoomorfi che poggiano sul piano del mobile e reggono l’alzata. Lo stesso elemento è riportato rovesciato nel¬la parte superiore, trasformandosi qui in elemento floreale.
Boulle nell’eclettismo di Napoleone III
Agli occhi del profano, o meglio, di chi ha solo una conoscenza superficiale sulla storia degli stili del mobile questo maestoso letto riccamente decorato di creazione Carletto Monzio Compagnoni, Treviglio, potrebbe tradire la ripresa di un modello molto più datato di quanto non sia in realtà. Boulle, il famoso ebanista seicentesco, è il primo nome che viene alla mente, ma se il modello sicuramente del Seicento non è, l’errore non è poi così grossolano. Gli esecutori odierni di questo pezzo hanno infatti ripreso per la loro realizzazione un originale ottocentesco: e qui qualsiasi fraintendi¬mento cronologico si svela. Se infatti fino al X IX secolo gli stili si sono succeduti nel tempo legandosi fra lo¬ro mediante elementi di continuità formale e cam¬biamenti graduali, oppure a volte decisamente staccan¬dosi l’uno dall’altro nel mo¬mento in cui imperversava una rivoluzione di gusto che mutava radicalmente le tendenze in voga nel periodo immediatamente precedente, l’Ottocento si distingue per la sua caratteristica di riabilitare e riportare in auge alcuni stili del passato, soprattutto quelli molto ornamentali destinati ai ceti alti, quelli più sobri e rigo¬rosi invece per i nuovi ricchi, la borghesia ormai cresci uta che si è conquistata una posizione in società. Il letto che presentiamo è il rifacimento di un esemplare realizzato all’epoca di Napoleone III, il cui regno, che durò dal 1852 al 1870, segnò una fase di prosperità nazionale favorita dall’incremento industriale. Stilisticamente Napoleone III viene associato al periodo di Luigi Filippo, che lo precedette al trono di Francia: infatti dopo gli stili “classici” che caratterizzarono il Direttorio, il Consolato, l’Impero e la Restaurazione, con Luigi Filippo e Napoleone III iniziò il cosiddetto eclettismo che, seppure ancora risentiva dello spirito archeologico dell’Impero, tornò indietro nel tempo per riprendere canoni che spaziavano dal Rinascimento al Luigi XVI. E fra questi “repechage” formali non poteva mancare Boulle, per il quale lo stile Napoleone III aveva una speciale predilezione e che ben si adattava al gusto del¬l’epoca, amante di tutto ciò che prestasse particolare attenzione al decoro. Tornano così a rivivere i virtuosismi dell’ebanista seicentesco, gli intarsi che accostano i materiali più inconsueti e preziosi come l’avorio e la tartaruga, in un gioco di cromatismi fortemente caratterizzante. A completare il mosaico che spicca sulle parti scure dell’ebano compaiono gli elementi in ottone o in bronzo, come nel letto che presentiamo, dove figure umane e allegoriche si alternano ad anfore ed elementi fitornorfici. Lo stile Luigi Filippo e ancor più il Napoleone III, che ne rappresenta la diret¬ta continuità e anzi con un apporto maggiore di modelli risalenti alle epoche più distanti fra loro per concezione formale, sono stati a volte tacciati per mancanza di creatività: come se, celandosi sotto le mentite spoglie di un’esigenza di revival dal risonante nome di eclettismo, manifestassero solamente vuotezza culturale e artistica, mancanza di nuove idee da proporre. Tenendo presente che anche ogni novità segue necessariamente un’ispirazione e che il rifacimento implica pur sempre una dose di creatività, lo stile Napo¬leone III trova ulteriore giustificazione nel fatto di aver ripreso antiche tecniche decorative riadattandole allo spirito del tempo in corso. E se era con quei canoni formali che i francesi del¬l’Ottocento si identificavano, meglio riportare alla luce tradizionali modi di espressione artistica piuttosto che inventarne altri che non avrebbero potuto in quel momento storico e sociale incontrare l’approvazione generale
Architettura integrale nello spazio abitato
Prima la casa, poi il verde, quindi il territorio. Questi sono, gerarchicamente, i valori tradizionali dell’intervento architettonico. Ribaltiamoli. E prendiamo gli ultimi due come parametri di partenza. L’itinerario – prima creativo e poi imprenditoriale – è il territorio per arrivare alla casa. E’ la proposta dei Vivai del Sud.
Cominciamo con il verde. I Vivai del Sud sono nati proprio con la ricerca, la conoscenza, l’architettura del verde. Soprattutto del verde che caratterizza l’area del Mediterraneo. Le piante in particolare la palma, pianta del sole – sono l’elemento deterrente che consente ai Vivai del Sud di dare significato e valore al programma di architettura « viva”.
E poi c’è il Sud, l’area geografica dove gli spunti per questo programma sono più vitali. L’area del Mediterraneo è infatti il territorio più prodigo di testimonianze, di esempi, di riferimenti: natura, storia, arte, culture trapiantate. E anche materiali, concessioni geometriche, tradizioni, clima. E infine, liberatorio e vivificante, il sole.
Siamo di fronte, dunque, a una nuova filosofia dello spazio abitato. Il concetto, il significato, la funzione, l’idea della casa vengono riconsiderati partendo da elementi di giudizio e di analisi non tradizionali, ma originali. La proposta dei Vivai del Sud ha un preciso obiettivo: integrare l’esigenza primaria
dell’abitare con quella, non secondaria, di conoscere, riconoscere e accettare il proprio territorio.
Questo obiettivo non è troppo lontano. E neppure troppo ambizioso. In ogni caso, poiché non vale la pena di restare nel dubbio, la cosa migliore è una verifica personale. Gli esempi non mancano. Gli interventi dei Vivai del Sud riguardano esterni (architettura del verde per giardini privati, complessi, strutture, percorsi, ecc.), immobili (progettazione di ville, complessi urbanistici, ospedali, alberghi, ecc.), interni (ristrutturazioni, arredamenti, rivesti¬menti, mobili) e strutture particolari (gazebi, terrazzi, giardini d’inverno).
Il background professionale non potrebbe essere più rassicurante: lO anni di esperienza imprenditoriale, di ricer¬ca, di progettazione e di disegno industriale. Una esperienza raccolta e con¬solidale non solo in Italia e in Europa, ma anche in Africa, Arabia, America.
Per quanto riguarda l’arredamento, è il caso di sottolineare che i Vivai del Sud esportano o producono mobili in quasi tutti i Paesi del mondo (accordi particolarmente importanti sono stati raggiunti con grandi distributori in Francia, Germania, Svizzera, Stati Unit i).
E’ un successo significativo. Perché dimostra che, nonostante tutto, l’uomo sa ancora dare il giusto valore allo spazio abitato.
La città storica
Il ragionamento è semplice: prendiamo il centro storico, individuiamo delle aree critiche e affidiamo a vari progettisti il compito di studiare interventi di recupero per ciascuna area. Che si tratti di un atto coraggioso non c’è dubbio. Ma è altrettanto fuor di dubbio che l’impegno assunto di recente dall’amministrazione comunale di Genova – ristrutturare la città storica suddividendo il lavoro tra sei progettisti (De Carlo, Belgiojoso, Fera, Grossi-Bianchi, Gardella, e Piano) – presta il fianco ad una critica fondamentale: come sarà possibile combinare letture prospettiche del passato metropolitano così distanti tra loro? Inutile, in ogni caso, formulare giudizi prima ancora che sia stato dato il via ai lavori di restauro. Meglio aspettare settembre (quando il Comune prenderà una decisione definitiva) e, nell’attesa, approfondire la conoscenza dei vari progetti. Prendiamo, per esempio, il caso del quartiere del Molo, un’area strategica rispetto al centro storico per la quale lo staff di Renzo Piano (il progettista del Centre Pompidou di Parigi, il famoso Beaubourg) ha già messo a punto un dettagliato piano di riconversione.
Un tratto distintivo del Molo è rappresentato dalla chiarezza dell’ impianto urbanistico. Una chiarezza dovuta al fatto che nel ‘200 il quartiere era stato programmato per assolvere una funzione precisa: quella di magazzino per le attività portuali della città. Grano, sale e altre merci venivano conservati in immensi edifici, veri e propri silos, che a distanza di secoli conservano intatto il loro fascino e la loro dinamica spaziale. “Proprio per questa sua struttura semplice e relativamente sana – osserva Renzo Piano – il Molo può funzionare da laboratorio in cui sperimentare un intervento tipico sull’antico che in seguito potrebbe essere attuato in contesti più difficili”. Il progetto si articola in tre momenti: 1) intervento a scala urbanistica (è la parte che si occupa del collegamento tra il quartiere e l’intero centro storico); 2) intervento a scala di quartiere (che punta sull’individuazione dei servizi e una diversa organizzazione della viabilità;
3) intervento su 4 isolati-pilota (attraverso cui simulare una rilettura in chiave operativa) .
Quest’ultimo aspetto, naturalmente, corrisponde alla fase più avanzata del progetto. n punto di partenza è costituito dal riciclaggio degli antichi impianti spaziali. E qui sorge l’interrogativo di fondo: com’è possibile per edifici alti 6-7 piani, privi di ascensori e con scale ripidissime, soddisfare le moderne esigenze residenziali? La proposta di Renzo Piano è stimolante: dotare gli isolati di un’attrezzatura di servizio che non comprometta la qualità dell’insieme spaziale. In altri termini si tratta di concentrare gli ascensori in un punto solo, esterno all’edificio, evitando l’intervento sul vano scale che chiuderebbe il cavedio interno, togliendo poi aria e luce. Inizialmente era prevista una sola fermata dell’ascensore (allivello del tetto) e il conseguente accesso “a pioggia” nella abitazioni; in un secondo tempo, tuttavia, il progetto è stato integrato dalla creazione di un passaggio intermedio, destinato a trasformare i percorsi interni in luoghi di sosta collettivi. Per cui, se è pur vero che all’alloggio si arriva scendendo o risalendo di un piano, è anche vero che la riconversione delle vecchie strutture evoca imprevisti scenari spaziali.
L’idea-chiave, insomma, è quella di valorizzare la zona alta. Spiega l’architetto Piano: “E assurdo collocare una scuola materna in fondo a un vicolo largo 3 metri e alto 26, dove non ci sono né aria né luce e regna l’umidità. Perché non trasferire certi servizi in alto? Pensate anche alla panoramica che si aprirebbe dai tetti verso il mare. Non sarebbe certo un problema difficile da risolvere: per creare una scuola materna che soddisfi le esigenze del quartiere basterebbe espropriare un paio di alloggi”. Ma c’è un altro aspetto interessante in questa rilettura dello studio Piano: l’invito a utilizzare gli antichi enormi contenitori per attività di carattere culturale. Un esempio? II magazzino del sale, con i suoi contrafforti destinati a sostenere poderose spinte laterali (a causa del progressivo asciugamento del sale) sarebbe facilmente adattabile, anche dal punto di vista dell’acustica, a luogo della musica, sia come auditorium che come museo. Intendendo, naturalmente, il termine museo nell’accezione tipica di Renzo Piano: cioè come luogo di produzione e insieme di apprendimento diretto, di conoscenza dei materiali; struttura partecipata piuttosto che luogo di mera consultazione. II tutto, peraltro, senza trascurare la rivitalizzazione del flusso commerciale. II problema, in questo caso, consiste nel riattrezzare con negozi il vico Malatti, la spina dorsale del Molo, che ha perso col tempo la sua funzione originaria anche a causa di una occlusione alla viabilità pedonale. Una riconversione senza dubbio plausibile se si considera che il pianoterra è occupato da numerosi magazzini (oggi per lo più vuoti o utilizzati come mini-garages, laboratori privati ecc.), la cui presenza era giustificata dal fiorire nell’intero quartiere di attività legate all’artigianato navale. Altro che ottica nostalgica. Come già per altre realtà urbane (Otranto e Burano), le proposte di Renzo Piano, lungi dal costituire un ripiegamento sul passato, puntano piuttosto sulla combinazione tra antico e nuovo. Ma soprattutto presentano un elevato grado di fattibilità. Il perché è semplice: la scelta degli isolati-campione non è dettata solo dall’esigenza di veder rappresentate situazioni fisiche diverse (contenitore, casa del 2-300 con tipologia classica, edificio restaurato dopo la guerra), ma anche situazioni proprietarie diverse (proprietà privata, divisa e indivisa; proprietà comunale e demaniale). Sicché, alla fine, emergono indicazioni orecise circa tempi e modalità con cui sciogliere i nodi giuridici che potrebbero frapporsi alla realizzazione dell’operazione di recupero.
Un’operazione che, almeno in prospettiva, si affida alla cooperazione tra pubblico e privato. Il Comune, in particolare, si farebbe carico di alcuni interventi di base (i collegamenti verticali, le passerelle, la scuola sul tetto ecc.) in modo da innescare un processo di ristrutturazione che dovrebbe successivamente essere gestito dai piccoli proprietari. Niente di coercitivo, in ogni caso. “Il progetto – spiega Alessandro Traldi, architetto dello staff Piano – è concepito come un cantiere diluito nel tempo, diciamo 15 o 20 anni. Nessuno obbliga il privato a seguire una direzione prefissata. Semplicemente noi diciamo: dal momento che ti vuoi muovere, sappi che il Comune ti aiuta per una certa quota e sarebbe opportuno che le trasformazioni, di volta in volta, si uniformassero ad uno stesso parametro”. Un modo di memorizzare senza per questo ricorrere al congelamento della città del passato. Sul centro storico – in fondo è questa la lezione di Renzo Piano – si può intervenire solo a patto che si riprogettino i sistemi (e a volte persino gli attrezzi) di intervento. L’organizzazione tradizionale è assolutamente sproporzionata rispetto alla complessa realtà, fisica e strutturale, dei centri antichi; quel che occorre è un meccanismo più flessibile, leggero, capace di risolvere il caso per caso senza far violenza al tessuto storico, ma soprattutto capace di interpretare le mutevoli esigenze dei veri protagonisti del progetto di risanamento: gli abitanti del quartiere.
Plaza Hotel
Talvolta, catapultati da un luogo all’altro, ci troviamo immersi in una realtà che solo pochi istanti prima ci era sconosciuta. Una città nuova apre le sue braccia per accoglierci, ma non sempre il nostro corpo è disposto ad inoltrarsi in questa nuova dimensione. Ci spostiamo nell’immobilità del luogo alla ricerca di sensazioni confortanti nella ricerca di una sistemazione talvolta breve, appunto anche di pochi attimi, per non soggiacere e non soffocare. E nel luogo le cose, le macchine, la gente e gli animali creano un tunnel animato nel quale una parte dell’io riesce a contenere l’angoscia dell’isolamento, dell’ estraneità. Ci inventiamo una calda coltre, un tetto: la protezione. Rivediamo fotografato l’attimo della nostra presenza in una sequenza di colori in una singolare “non conoscenza” e scopriamo la nuova dimensione di stranieri, ormai protetti.
Ripensiamo al percorso, alla distanza e il cammino lasciato alle spalle diviene certezza di un passato ormai entrato nella nostra mente come conoscenza, come nostro sapere. Le strade, i monumenti hanno lasciato nel solco della memoria la traccia e sono divenuti parte del sapere.
Probabilmente non cancelleremo più nulla, probabilmente diventeranno anch’essi confronti di dialoghi nel divenire. La nuova città è nostra, forse solo per una notte, forse per un tempo interminabile, ma in questi giorni andremo ancora cercando esperienze nel nostro instancabile cammino. Anche le parole, sottofondo ai pensieri, come musica daranno forza e sottolineeranno le azioni: confortevoli accarezzanti protezioni in alcuni disagevoli momenti. Sentirsi fuori o dentro le città non ha logiche spiegazioni dipende dal colore, dal nostro corpo, dal nostro sapere. Ci ritroviamo forse su una chilometrica scalamobìle, sulla cima di un grattacielo o nella nostra stanza d’albergo. Un albergo che può esserci amico a Vienna, a Tunisi o a NewYork.
Possiamo vedere nella nostra stanza l’altro capo del mondo simile a casa nostra.
Dipende, forse dalla sensibilità di un proprietario di origine scozzese, italiana, greca, indonesiana o cinese. Dalla razionalità di uno stile. Il gusto dei mobili ci avvolgerà nell’abisso di secoli passati, sprofonderemo sulla poltrona di stile Luigi XV o apriremo le antine di una scivania inglese del xvrn secolo per scovarne il segreto.Il letto assorbirà inquieti sogni. Talvolta ci accorgeremo di non essere mai arrivati in nessun luogo, di non esserci allontanati dalla nostra città. Muoversi nello spazio nuovo sciogliere la forza dei pensieri in dimensioni differenti e toccare gli oggetti, i quadri, le cose qualche volta ci sembrerà naturale. Paragonabile,verificabile confronto di futili cose. Dipende. L’Hotel Plaza fu completato il 10 ottobre 1907 e fu finanziato da John Gates soprannominato “John scommetti-un-milione”) speculatore, giocatore d’azzardo, e re del filo spinato. Nacque dai sogni di Ben Beinech e Harry Black. Fu progettato dall’architetto Henzy J. Hardenbergh sullo stile di un “Chateau Francese” e arredato da E.F. Pooley con mobili in stile Luigi XlV e Luigi XVI. Lo stesso architetto che progettò il Waldorf Astoria di New York, che si affaccia sul Centrai Park e che fu residenza privata di Guggenheim, collezionista d’arte, e di sua moglie.
Il focolare polacco
Il crepitio della legna che brucia, il vorticare dei lapìllì verso l’alto spinti dal rovente alito delle lingue multicolori e lampeggianti di un fuoco attizzato, fanno il contenuto vivo, cangiante e multiforme di un quadro che ha per cornice, solitamente nelle fredde giornate d’inverno, la tiepida struttura di un caminetto. Attirati prima dal calore e poi ipnotizzati dal gioco di immagini astratte poiettate dalla nostra fantasia su quella tela abbagliante tesa ai quattro lati, vi ci stringiamo attorno cercando di carpire l’energia che trasmette al nostro corpo e alla nostra mente, e non vorremmo allora che quel gioco si estinguesse mai, per non sentire la sua assenza più forte di prima. Là dove l’inverno è più lungo, dove il giorno non ha che breve durata, dove la natura fuori dalle riparate mura di una dimora si mostra inospitale all’uomo per parecchi mesi all’ anno, il culto del focolare assurge ad un’importanza primaria. Nei paesi del nord Europa, come ancora nei paesi di alcune nostre zone alpine, alla stufa o al caminetto è riservata una posizione di fulcro: troneggia nell’ambiente principale dell’abitazione, concentrando nel suo spazio circostante le attività della famiglia di giorno, e offrendo di notte, secondo la sua architettura, un caldo ricovero. Simbolo ovunque e da sempre del palpitante cuore di una casa. Ha spesso alimentato singolari tradizioni che l’hanno accompagnato nel tempo e caratterizzato nelle regioni. Si distinguono tra queste alcune particolari usanze ancora praticate in certi villaggi meridionali della Polonia, dove l’edilizia rurale conserva tuttora la sua antica caratteristica architettura in legno. Le case qui appaiono fantasiosamente decorate sia esternamente che internamente da vivaci polìcromìe a motivi vegetali e geometrici che via via si compongono con più ricchezza nella stanza centrale dell’abitazione attorno alla stufa. Dedite al rinnovamento di questa tradizione pittorica sono le donne della casa, che ogni anno in occasione della Pasqua rinfrescano tali decorazioni con tinte ad acqua preparate da loro stesse. Lo stile che ne risulta diffonde un gradevole effetto naif che va’ in armonia col peculiare contesto ambientale in cui ci si trova avvolti. Lo stesso tipo di decorazioni a banda tracciate sulle pareti sono quelle chevediamo poi ripetute con altrettanta cura anche sulle uova, che vengono adornate invece secondo la tecnica a ”batick” (con cera sciolta e immerse poi in coloranti diversi) .
Il significato e la forma di diverse usanze come queste praticate attorno “al fuoco” dai popoli slavi vanno ricercati nei residui dei lontani riti pagani, che rifluirono poi in epoca posteriore nella cultura cristiana perdendo il loro primitivo senso magico. Un’ulteriore espressione popolare dedicata ancora alla decorazione del focolare domestico in Polonia la ritroviamo nella consuetudine di ritagliare variopinti merletti di carta chiamati “wycinanki”, dei quali se ne elaborano due versioni: una monocolore con forma circolare, stellare o quadrata caratterizzata da un motivo più che altro grafico, ottenuto col tagliuzzare un foglio di carta lucida più volte ripiegato su se stesso, e l’altra policroma dal carattere più pittorico costituita da un variegato collage di ritagli diversi. Anche il paziente intaglio del legno, praticato durante i giorni di festa in questo Paese davanti al fuoco, è una delle attività consacrate alla sua presenza; i manufatti sono quasi sempre suppellettili utili alla vita domestica, ma qualche volta riproducono anche grezze immagini di santi che trovano collocazione nelle cappellette e nelle santele ai crocicchi di campagna. A vegliare invece sulla ovattata e dorata atmosfera del focolare sono i santi delle numerose icone poste sopra o di fianco al camino o alla stufa. Vengono schierati secondo un ordine estetico quasi sempre su un’unica parete, manifestando esplicitamente nell’interesse per la loro dìsposìzìone una certa fusione tra convinto spirito reli..sioso e puro gusto decorativo. Questo genere di pittura ormai storica, commerciata tutt’ ora nelle sagre di campagna, è ispirata ai modelli dell’arte ecclesiastica, reinterpretati dagli artisti popolari in modo creativo e originale.
Può essere su carta, tela o vetro, ed è caratterizzata da macchie di colore audaci nelle tinte sgargianti. I contorni netti e scuri vediamo che contribuiscono ad appiattire l’immagine e l’attenzione per il particolare realistico si compiace nell’esecuzione dei dettagli. Riusciamo però a rilevare infine il sottile filo di ambiguità che si dipana nel legame di queste immagini che orbitano attorno all'” elemento principale”, una volta unica e temuta divinità; sacro e profano si fondono al di sopra della sfera di ogni nostra consapevolezza.
Soffitti a cassettoni
La casa delle vacanze rispecchia quasi sempre il bisogno di ognuno di vivere, almeno per brevi periodi, a stretto contatto con la natura e in un ambiente che favorisca lo sfruttamento del tempo libero, in al¬ternativa alla vita, non sempre facile, nella città.
Ne offre un tipico esempio la bella ed importante casa presentata in questo servizio dove appare evidente che oltre ad avere la funzione di luogo ricreativo e di confortevole relax è stata realizzata anche per essere una casa di rappresentanza, spesso aperta ad ospitare amici e parenti per trascorrere serene e divertenti giornate in compagnia, sulla neve ..
Al grande soggiorno che si articola in varie zone separate, ma armoniche fra loro, in cui si distinguono la zona eranzo, l’angolo conversazione e la zona camino, è stata affiancata una tavernetta, utilizzata anche come sala da gioco. Qui, la vivacità dei co¬lori verde e rosso, che costituiscono il leitmotiv dell’arredo di questo locale, tipicamente rustico, contrastano con la scura tonalità del legno che riveste le pareti e con la travatura del soffitto.
In altri punti della casa, invece, il soffitto è realizzato da una particolare copertura in legno, più propriamente chiamata “a cassettoni” che costituisce una delle carat¬teristiche più gustose e interessanti dell’ar¬chitettura interna di questa bella abitazio¬ne.
Dai particolari di questi splendidi soffitti, che possiamo ammirare nelle foto del servizio, notiamo che sono realizzati in legno di noce, decorato da eleganti ricami intagliati che riprendono gli antichi motivi tipici della zona. La tradizione dei soffitti a cassettoni è infatti molto antica e risale a molti secoli fa. Strettamente legato alla cultura delle valli alpine questo tipo di soffitto vive ancor oggi in questi luoghi come preziosa testimonianza di una delle più belle espressioni dell’artigianato locale. Un tipo tra i più diffusi e completi è il cassettone che prevede una struttura a carpenteria, formata dalle travi portanti e da travetti a cavallo di quelle, e una finitura decorativa: il fondo dei cassettoni è fissato alle travi, mentre i fianchi e le cornici sono fissati direttamente a travetti o mediante correntini lineari o attraverso pezzi speciali.
Il mobile dipinto
Il mobile dipinto nasce e si sviluppa senza dubbio come elemento decorativo e scenografico dell’ambiente in cui verrà inserito, quasi in contrapposizione ad un’architettura esterna che, per quanto imponente, è solitamente caratterizzata da una dignitosa e del tutto sobria semplicità.
Ciò che stimola di più in questi pezzi è la continua ripetizione sempre diversa delle decorazioni ed i colori, caldi ed affascinanti, ottenuti a tempera su legni dolci al pari dell’abete o del pioppo. Quest’ arte di abbellire e decorare gli oggetti dipingendoli prese pie” de più o meno lungo tutta la Penisola, se si pensa che sia in Friuli, dove troviamo una produzione vastissima e di notevole qualità architettonica e pittorica, sia in Sicilia possiamo reperire mobili in tal guisa.
Nonostante questi mobili siano di fattura artigianale, e perciò semplici nella loro struttura, il loro pregio fondamentale risiede nella spontaneità e nella immediatezza dei motivi stilistici adoperati, che li rendono visivamente molto gradevoli per la loro genuinità d’espressione; per i loro colori e motivi, a volte dal sapore un poco ingenuo, li prediligiamo oggigiorno come componenti da arredamento in quanto piacevoli e facilmente collocabili.
Rare eccezioni di gusto più raffinato e particolare sono date da quegli esemplari in cui ad una decorazione a motivi puramente ornamentali si sostituisce una vera e propria ricerca in campo pittorico. E noto infatti che a volte alcuni dei disegni riprodotti sui mobili derivano direttamente dai cartoni di pittori di alto valore.
Il senso del colore, il gusto della decorazione si inseriscono e si sovrappongono a strutture general¬mente lineari, caratterizzate appena da ondulazioni e movimenti verticali, accentuati dal disegno, strutture che comunque ‘non avranno mai le curve e controcurve quasi plastiche del mobile laccato veneziano del ‘700 .
La conferma dell’assoluta originalità ed autonomia del mobile dipinto rispetto a quello laccato veneziano sta precisamente nella differenza della tecnica usata, assai più semplice di quelle applicazioni di gessi, lacche e vernici a sandracca, ma dai risultati ugualmente suggestivi ed avvincenti. Per quanto riguarda la tecnica vera e propria usata per la decorazione dei mobili dipinti, ricordiamo che venivano usati principalmente tre metodi. Il primo consisteva nella stesura del colore a tempera su di un fondo di legno dolce ben levigato, strato di gesso caolino legato con colla organica; altro metodo, anche se poco usato e di cui abbiamo pochissimi esempi, è quello della coloritura all’ encausto, cioè un composto di olio, acquaragia e cera miscelati con polvere di zinco e colori vari, che si stendeva direttamente sul legno; il terzo procedimento, da alcuni chiamato a tempera grassa, consisteva nell’uso di olio di lino cotto associato a bianco di zinco e polvere di vari colori, che pure veniva steso direttamente sul legno senza alcuna preparazione.
Parlando del mobile dipinto non possiamo esimerci dal fare un breve accenno all’ espressione forse più conosciuta di quest’ arte anche perché senz’ altro visivamente la più evidente: la cassapanca. Le più’ conosciute sono senza dubbio quelle marchigiane, anche se ne troviamo di altrettanto belle ed importanti nel Friuli; anzi possiamo dire che molte volte gli stessi esperti possono trovarsi in imbarazzo nel determinarne la provenienza.
Le cassapanche derivano con ogni probabilità dai cassoni del XV e XVI secolo e si possono facilmente catalogare nel periodo che va dalla metà del XVII alla fine del XVIII secolo.
Questo tipo di mobile dimostra in maniera evidente la fantasia creativa ed il gusto scenografico tipico della regione marchigiana e ci mostrano l’espressione più alta del mobile creato esclusivamente a scopo ornamentale.
Il più delle volte, per non dire nel¬la totalità dei casi, venivano co¬struite per essere disposte negli ingressi o nei grandi saloni cen¬trali che fungevano da ingresso, a coppie o in misure diverse. Nelle cassapanche troviamo il più delle volte le stesse ricerche decorative o simili motivi architettonici che fungevano da cornice a stemmi di famiglia o famiglie a seconda che venissero eseguite in occasione di matrimoni.
Troviamo infatti spesso sugli schienali stemmi accoppiati di fa¬miglie che con le nozze si erano unite.
Le cassapanche barocche marchigiane, a differenza di quelle friulane, non hanno quasi mai schienali molto alti o appesantiti da troppo ricche cimase, ma anzi hanno dorsali sagomati e molto allungati ed ogni esemplare ci mostra una sua ben precisa tipo¬logia.
Ne troviamo di piccole note come panchette, o di molto grandi uti¬lizzate al posto dei cassoni. Possiamo in ogni caso affermare che le cassapanche sono senza dubbio la migliore testimonianza del mobìle dipinto marchigiano.
Le cartoline d’auguri
Fino a qualche anno fa, sotto le Feste, il più bel regalo per i precari nel compartimento postale di Napoli veniva dai colleghi romani: questi inviavano loro sacchi di posta che non riuscivano a smistare. Spenta la fiammata degli auguri, i napoletani tornavano alle loro varie attività di disoccupati. L’inesorabile scatto delle tariffe ha oggi trasformato anche i meno occulturati in critici della cartolina come veicoli del luogo comune; la pigrizia trova poi giustificazione nei tuttologi che regalano i rituali della nostra infanzia tra lo stupidario e la «cultura repressiva». Le cartoline augurali sono quindi sparite. Ogni epoca ha i propri luoghi comuni e i propri rituali; rispetto a quelli d’oggi, che coniugano semantica e terrorismo culturale, quelli di ieri ci paiono più rassicuranti, proprio perché ci si presentano per ciò che sono. E d’altra parte è un test tanto più severo quello che ci confronta con generi così codificati da render quasi impossibile ogni reazione non pavlovìana,
Uno sguardo buttato su una collezione di cartoline d’auguri dell’inizio secolo ci rivela come tanti illustratori, sovente anonimi o comunque sconosciuti, sono fuggiti al risultato mediocre, del rituale e dell’iconografia. Sarebbe d’altronde inutile attenderci personali e libere interpretazioni in oggettini il cui senso, più che nell’ espressione di un artista creatore, sta nella produzione, tra artigianale e industriale, per un mercato tuttavia più esigente di quel che si crede. La stampa litografica anche a 10 colori e più, la stampa a rilievo, le argentature e dorature trasformano certi pezzi in veri gioielli di cartotecnica, oggi irripetibili per costi; ma già allora queste cartoline, veri oggetti da regalo, erano ben più care della media. La produzione corrente è più popolare, per quel che
poteva esserlo un prodotto destinato sino alla prima guerra mondiale alla sola borghesia.
Qui l’imperizia grafica e la povertà di stampa si fondono con la più ingenua accettazione dei luoghi comuni per produrre a volte risultati che agli occhi di un Elouard son potuti sembrare pagliuzze d’oro in un mare di sterco (<
Più rare sono le cartoline che prendono il tema come puro spunto per ricerche personali e svolte sotto il segno di una corrente artistica alla moda. Passando poi alle piccole edizioni destinate a circolare entro la cerchia ristretta di un gruppo, o arrivando ai pezzi fatti a mano per gli amici, possiamo imbatterci in libere e anche dissacranti innovazioni in fatto di
iconografia.
Riportare oggi l’attenzione su un genere datato, e trionfante nel primo ‘900 può quindi esulare sia dalle nostalgie retro che dagli snobismi popolar-Kitsch. Rinunciando alle cartoline augurali non ci preserviamo affatto dalla banalità: tornando a praticarle, in modo inevitabilmente incerto, incauto, improprio dopo anni di disaffezione, rischiamo invece di aprir qualche spaccatura nella crosta di uno dei luoghi comuni più duri a morire: la cartolina come supporto di immagini stereotipe su un lato e di convenevoli sull’ altro.
Auguri.
Gli anni di plastica
Il fascino delle vecchie plastiche è forse dovuto al mistero
e all’anonimato che in fondo hanno sempre circondato questi materiali.
In passato si è spesso usato il termine “plastica’ in modo alquanto generico.
Siano esse resine semi-sintetiche o interamente prodotte in laboratorio le plastiche sono sempre state considerate come tutte uguali. In realtà, a tutt oggi se ne conoscono più di 60 differenti tipi. ma la scarsità di documentazione relativa alle più antiche dimostra come esse non siano sempre state tenute nella giusta considerazione.
Dire di un oggetto che è
“di plastica ha spesso significato un’accezione negativa della qualità dell oggetto stesso.
La ragione di tale atteggiamento va forse ricercata nelle prime applicazioni di questi materiali. Nella seconda metà del secolo scorso venne a scarseggiare
in modo sempre più evidente, tutta una serie di sostanze naturali quali la tartaruga I avorio
l’ambra, il como.
Fu a questo punto che nacquero dei materiali che dovevano sostiturie sempre più quelle sostanze il cui costo era vieppiù aumentato.
Alexander Parkes presentò nel 1862 a1llntemational Exhibition di Londra e nel 1867 aIl’Exposition Universelle de Parìs, una serie di oggetti in ‘Parkesina ‘. Si trattava di una resina semisintetica che ricordava I avorio ed il como. Fu un grande succeso che gli valse in ambedue le occasioni una medaglia. In seguito, Parkes non si limitò solo ad imitare altri materiali
ma riuscì anche ad ottenere degli oggetti nei colori più svariati.
Nel 1863, negli Stati Uniti fu offerto un premio a chiunque fosse riuscito a sviluppare un materiale sostitutivo per la fabbricazione di palle da biliardo, poiché l’avorio stava venendo a mancare. John Hyatt americano non vinse il premio, ma nel 1869 brevettò la ‘Celluloide’ , una sostanza semi-sintetica derivante dalla cellulosa che presentava interessanti possibilità di lavorazione.
Era possibìle ridurla in fogli e stamparla, e di conseguenza si prestava a rivestimenti di altre superfici quali il legno . La gamma di colori e di sfumature era molto vasta dal bianco più puro al nero più intenso.
Poteva imitare l’avorio quanto la tartaruga. L inserimento di pigmenti metallici permetteva inoltre di ottenere degli effetti iridescenti simili alla madreperla. Nel 1899, in Germania
A. Spitteler e W. Krische depositarono la “Galalite” o pietra di latte. Pochi anni dopo nasceva in Inghilterra I Erinoìde.
Si trattava in ambedue i casi di caseina che indurita con l’aggiunta di formaldeide raggiungeva un buon livello di imitazione della tartaruga e del como.Attraverso ulteriori lavorazioni fu impensabile se non a costi elevatissimi.
La storia delle vecchie plastiche non finisce certo qui.
Molteplici materiali furono sviluppati nel corso di anni di studio e di ricerca, quali il Collodion, la gomma sintetica, la Urea e la Rodonite, molto applicata negli anni ‘SO per la fabbricazione di borse.
Se è quindi vero che la scarsità di sostanze naturali fu all’origine della nascita delle plastiche,
è però anche vero che queste non possono essere considerate esclusivamente come sostituti di materiali più preziosi.
Le successive scoperte di nuove sostanze chimiche hanno permesso all’industria di ottenere dei risultati altrimenti irraggiungibili con altri mezzi conferendo piena autonomia all’oggetto di plastica di oggi come a quello del passato.
Ormai diverse istituzioni, particolarmente in Inghilterra e negli Stati Uniti, hanno raccolto e continuato a raccogliere vecchi oggetti in plastica, organizzando delle esposizioni permanenti. Nella prefazione del catalogo della mostra “Plastics Antiques” presentata a Londra nel 1977,
vi è una frase di Roger Newport del Wolverhampton Polytechnic che invita a considerare re vecchie plastiche con altri occhi e rivalutarne la loro importanza;
” … poiché corriamo il rischio di smarrire un patrimonio di fascino e di valore … “.
possibile ottenere ampie gamme di colori nonché sfumature madreperlacee.
Nel 1907 il Dr. Leo Baekeland depositò la prima resina totalmente sintetica alla quale mise il nome di “Bakelìte” .
Alla sostanza originale veniva aggiunto a seconda dei casi, polvere di legno, di mica o altre sostanze rinforzanti che ne rendevano possibile lo stampaggio. Gli oggetti otten uti erano però sempre e solo di colore scuro, prevalentemente neri o marroni.
Ulteriori ricerche chimiche permisero, a partire dal 1920,
di ottenere diverse colorazioni dal rosa al verde giada con possibilità di molteplici sfumature. Molti dei pezzi realizzati in questo materiale hanno subito negli anni alterazioni di colore . Tale
trasformazione conferisce loro una patina di antico che li rende più preziosi.
Le forme degli oggetti si ottenevano per colata e tutte le rifiniture, nonché le eventuali incisioni decorative, dovevano essere eseguite a mano.